Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

2016 tra reddito minimo e potere di acquisto\ contrattazione ai minimi storici

Postato il 4 Gennaio 2016 | in Italia, Scenari Politico-Sociali | da

mappa-salari_altIl Blocco sociale del neokeynesismo è destinato a soccombere o a un forte ridimensionamento, a farne le spese saranno ben presto la istruzione e la sanità pubblica (per come le abbiamo conosciute ) ma anche numerosi ammortizzatori sociali. Non si tratta di una profezia ma di leggere obiettivamente la realtà per quella che è  a partire dai decreti attuativi del Jobs act  e guardando con distacco la esaltazione del reddito minimo sociale da parte di quanti erroneamente pensano che la fine del neokeynesismo determinerà la ridistribuzione del welfare e dei redditi magari a favore dei precari, di chi sta nella gestione separata dell’inps.

Sarebbe opportuno guardare alla Germania di inizio secolo e al governo a guida socialdemocratica per cogliere le numerose, troppe, analogie e coincidenze con il Governo Renzi, dalla riforma del Lavoro (abbattimento dei sussidi di disoccupazione, riduzione degli ammortizzatori sociali mini job da 450 euro e medi job da 800 presentati come aumento dei posti di lavoro) allo smantellamento di uno dei piu’ importanti e garantisti welfare mondiali con un drenaggio della ricchezza prodotta dai redditi ai grandi capitali (con una revisione delle aliquote che favorisce i redditi alti)

Senza entrare nel dettaglio (lo fa per noi Alessandro Somma in un bel testo recentemente uscito “L’altra faccia della Germania  Derive Approdi 2015) , il Governo Renzi si muove su una strada già battuta, dieci anni fa il capitale europeo decise che per  le riforme strutturali richieste dal neoliberalismo e dal capitalismo europea fosse indispensabile un governo di centro sinistra

Con il pareggio di Bilancio in Costituzione, il Bilancio pubblico e il controllo dell’economia è stato trasferito dai Parlamenti nazionali a organismi sovranazionali, da qui nasce la continua riduzione della spesa sociale. il ridimensionamento del welfare, l’aumento dei costi di servizi sanitari accessibili per altro ad un numero sempre piu’ limitato di potenziali utenti con l’aumento delle malattie e in prospettiva la riduzione stessa della speranza di vita.

L’euro è stato lo strumento con cui l’Europa a guida tedesca ha costruito politiche neoliberiste di austerità da una parte e dall’altra di espansione dei capitali evitando che i paesi piu’ deboli usassero la leva della svalutazione della moneta nazionale per riconquistare competitività. Se la Grecia avesse avuto questo strumento oggi non vedrebbe forse il suo patrimonio pubblico in svendita

Il nuovo secolo è a guida tedesca, decine di banche tedesche sono di fatto pubbliche , di proprietà dello stato e dei lander, finanziano le imprese pubbliche e private sostenendone la domanda ma poi pretendono che nel resto d’Europa  si applichino le regole neoliberiste, analogo discorso vale per la moneta unica , l’euro , di cui il massimo beneficiario è proprio la Germania. Dove finiscono nel resto d’Europa i risparmi nazionali? Non a sostegno del reddito e della domanda, non a supporto del debito statale, non ad allargare i beneficiari del welfare o a investimenti nel settore pubblico, primo tra tutti nella ricerca,  i soldi prendono altre strade e a beneficiarne sono i capitali, le imprese

La sovraccumulazione di capitale non prende la strada del sostegno alle politiche del lavoro, anzi l’ampliamento di alcuni ammortizzatori sociali è finanziato con la contrazione degli stessi in termini di durata  il che si ripercuote negativamente sulla forza lavoro delle imprese poco competitive e sancisce la espulsione dal mercato del lavoro di una manodopera vicina alla pensione con ampio ricorso ai part time.

La circolazione dei capitali è indirizzata a politiche diametralmente opposte a quelle Keynesiane, nella fase attuale i capitali sono indirizzati prevalentemente alla costruzione di una area di mercato transazionale e per questo sempre meno risorse sono indirizzate al welfare e alle politiche attive del lavoro. Anzi, i settori pubblici o sono privatizzati oppure subiscono linee guida che stravolgono il carattere pubblico degli stessi servizi (esempio eloquente è la sanità)

In questo scenario, a livello nazionale, i vari Governi intraprendono politiche dettate dalla riduzione del potere di acquisto, il ridimensionamento del sindacato e la ridefinizione dei modelli di welfare riducendo complessivamente i soldi destinati allo stesso ma ridefiniscono al contempo la platea dei destinatari. Capiamo le ragioni dei sostenitori del reddito minimo sociale ma non possiamo condividerne l’entusiasmo, tuttavia pensiamo sia una mera follia rifiutare in toto la revisione dell’attuale welfare . Senza cedere di un cm al governo Renzi  bisogna mettera all’ordine del giorno la cancellazione della Riforma Fornero e del Jobs act ma anche l’ aumento delle tutele a favore di settori precari che pagano tasse senza ricevere in cambio trattamenti previdenziali e ammortizzatori sociali degni di questo nome. Ma lo ripetiamo ancora una volta per i novelli fautori del lavoro autonomo: i soldi tolti al welfare keynesiano non andranno a precari e disoccupati se non in minima parte, il 90% dei cosiddetti risparmi favorirà quei soggetti che poi sono gli stessi sfruttatori dei precari di oggi e di domani

 Scrivere che va affermandosi un welfare realmente universalistico è un nonsense soprattutto in una società dove si restringono gli spazi di agibilità e di democrazia partecipativa. Gli ammortizzatori sociali oggi sono inadeguati perchè non raggiungono tutti i soggetti sociali (per esempio i precari della conoscenza sono stati esclusi dalla discoll) ma non siamo convinti che di per sè il reddito minimo sociale (pagato con la disoccupazione di massa, con il lavoro volontario e lo smantellamento dei contratti nazionali) determini uno spazio  di solidarietà collettiva rivolto alle svariate forme di impiego e di lavoro. L’esperienza del reddito minimo in Europa non ha dato vita ad un movimento di disoccupati, piuttosto le mobilitazioni scaturiscono dalle decisioni dei Governi miranti a ridurre sussidi e sovvenzioni e piu’ in generale lo stesso welfare.

Ci viene quindi il dubbio (o la certezza) che alcuni dei sostenitori del reddito minimo siano piu’ in linea con quella idea dello statuto dei lavori (pensata di inizio secolo di Treu e di Amato) che con la difesa delle tutele esistenti e la loro estensione a tutte le forme lavorative dell’oggi. Da qui a negare la necessità del reddito minimo corre grande differenza ma è troppo chiedere ai sostenitori di questa misura un po’ di attenzione alle ragioni e alle cause reali che porteranno alla sua approvazione?

Ed è troppo pretendere che non si finisca ancora una volta nella rete della Cgil che in crisi di rappresentanza si erge a tutela dei precari che vivono in condizioni di miseria grazie anche alle politiche sostenute da Cgil Cisl Uil?

Ovviamente diamo per scontato (a torto probabilmente) che il sindacalismo di base, le realtà sociali vogliano mettersi in rete e costruire dei percorsi alternativi e inclusivi a partire anche delle modalità con cui si costruire oggi la pratica sindacale e l’organizzazione della classe lavoratrice nelle sue molteplici realtà

Globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia sono tra le cause del ridimensionamento del welfare e della stessa compressione dei salari (il potere di acquisto cala ogni anno , il lavoro dipendente perde statisticamente terreno a favore solo dei profitti di impresa). L’euro è lo strumento privilegiato con cui si riorganizza nel vecchio continente non solo l’accumulazione capitalistica ma si eliminano al contempo le anomalie nazionali, una sorta di conflitto inevitabile con il moderno capitalismo transazionale che per affermarsi ha bisogno di cancellare ogni forma di tutela collettiva, che riscrive le costituzioni  e gli statuti dei lavoratori eliminando ogni riferimento a un indirizzo, pur vago, dell’economia a fini sociali (su questo rimandiamo a Vladimiro Giacchè Costituzione italiana contro trattati europei e soprattutto a Domenico Moro Globalizzazione e decadenza industriale entrambi editi da Imprimatur)

Ridurre la spesa sociale significa anche evitare che i soli pubblici vadano a incrementare la domanda e le misure che determinano il welfare perché il capitalismo di oggi non ha bisogno di queste misure per affermare i suoi interessi, da qui la crisi del modello Keynesiano e del blocco sociale di riferimento, da qui nasce l’elogio della precarietà per affermare una nuova classe lavoratrice ricattabile, senza tutele e senza sindacato. Una nuova idea di lavoro , di impresa e di cittadinanza potrà nascere dalla derogalamentazione del diritto di lavoro e da una democrazia bonapartista incarnata dal partito della nazione?

Contrariamente a quanto scrivevano alcuni (Negri in primis) non sono scomparsi gli stati nazione che oggi sono impegnati soprattutto nel promuovere politiche di deregolamentazione giuslavorista, quindi lungi dallo scomparire gli stati nazionali hanno ridefinito ruoli e funzioni nella fase di sovra accumulazione (di capitali e di merci).

Provare a dimostrare la ragionevolezza, anche in ambito capitalistico, delle ricette neokeynesiane è un esercizio diffuso tra gli intellettuali di sinistra, noi sappiamo che favorire la domanda sarebbe sicuramente preferibile a politiche di austerità ma si dimentica che in una certa fase storica è stato lo stesso capitalismo a sposare queste teorie che  oggi risultano  inadeguate a superare le contraddizioni sistemiche.

Numerosi intellettuali, invece di analizzare il modo di produzione capitalista, si fermano solo alla fase distributiva e sognano i bei tempi andati assumendo caratteristiche nostalgiche al pari di chi oggi rimpiange la rivoluzione socialista e ritiene che la soluzione ad ogni contraddizione sia la rinascita di un partito comunista senza prima discutere di programmi, finalità dello strumento organizzativo.

Ma ancora piu’ pericolose sono in realtà le fusioni a freddo di ceto politico, esperienze come quelle di Sinistra Italiana sembrano essere costruite per illudere sulla nascita di una nuova aggregazione di sinistra che poi, forte di qualche  consenso elettorale, andrà a mediare con il Pd per costruire alleanze elettorali e di governo locale. Una volta per tutte va detto che con il neoliberalismo del Pd non ci possono essere alleanze e interlocuzioni, lo scriviamo alla vigilia di alcune tornate elettorali che vedranno rompersi alleanze “a sinistra”  a favore della permanenza nelle coalizioni con il pd, del resto, come diceva un ministro democristiano di lungo corso, il potere logora chi non lo possiede….

Le fusioni di imprese, di cui accennavamo prima, hanno bisogno di una deregolamentazione giuslavorista, di ridurre il potere di acquisto e di contrattazione sindacale e parliamo di processi che avvengono a livello europeo pur avendo alcune accelerazioni nei paesi meno competitivi del vecchio continente dove l’austerità sta producendo danni sociali incalcolabili, oltre a ridurre sul lastrico l’economia nazionale regalando a prezzi di favore quote azionarie e aziende a multinazionali dei paesi piu’ avanzati.

I paesi europei ormai fanno a gara per favorire le condizioni migliori per l’arrivo dei capitali, non importa ai governanti locali se tutto cio’ si tradurrà  nella devastazione dei loro territori, nella perdita di sovranità nazionale, nella desertificazione economica di intere regioni, nello sfruttamento selvaggio delle locali risorse\forza lavoro, nell’uso di una tecnologia sempre piu’ esasperata dalla quale dipende la tenuta futura del modello di produzione capitalista. Per ripianare le contraddizioni sociali  in ogni caso c’è sempre una legislazione di emergenza utile a criminalizzare opposizione e dissenso, del resto basterebbe guardare alle migliaia di condannati per reati che vanno dai blocchi stradali alle occupazioni di casa.

Per queste ragioni, in ogni paese, troveremo interventi analoghi a quelli del jobs act con politiche fiscali che gravano sui redditi da lavoro dipendente a solo vantaggio della libera circolazione di capitali. la Germania è partita in anticipo oltre un decennio prima con le riforme sul lavoro della SPD.  Analogo discorso va fatto per le legislazioni che si accaniscono contro il diritto di sciopero e limitano fortemente il diritto alla circolazione e a manifestare.

Gli stati nazionali rinunciano alla loro tradizionale sovranità e fanno a gara per offrire migliori condizioni alle imprese, da qui nascono le cessioni di aziende e quote azionarie a capitalisti stranieri (nel frattempo i capitali nazionali vanno verso l’acquisizione di aziende straniere ritenute strategiche, nel controllo dei corridoi energetici..) con l’inevitabile sequela di licenziamenti e fusioni, con porzioni di territorio preda della disoccupazione di massa e della desertificazione industriale. Ridurre la sovraccumulazione del resto è vitale per superare la crisi del modello capitalistico anche se determinerà la chiusura di tante fabbriche e la perdita di migliaia di posti di lavoro.

In questo scenario anche rivendicare maggiori ammortizzatori sociali, agli occhi degli apologeti del capitalismo, diventa un lusso insostenibile, non perché non ci siano soldi  ma perché questi capitali vengono indirizzati ad altro scopo, al controllo delle aziende e allo sviluppo delle stesse in ambito transazionale.

Stato e collettività non sono sinonimi, lo stato ha assunto decisioni (vedi le privatizzazioni) che con gli interessi delle classi sociali meno abbienti hanno poco a che vedere, non pensiamo quindi a riproporre un intervento dello Stato che , come in passato, favorirebbe solo i capitali privati, vogliamo invece pensare a ricondurre, come Moro scrive a conclusione del suo libro, le forze di produzione sotto il controllo della società e ci accontenteremmo intanto di costruire una nuova e variegata alleanza sociale contro il neoliberalismo, una alleanza che non si ponga per come obiettivo la scadenza elettorale che nel corso degli ultimi 25 anni ha determinato solo sconfitte e arretramenti e la perdita di un radicamento sociale ormai ridotto ai minimi termini. Come dicevamo un tempo, fuori i contenuti e le pratiche comuni, non saranno certo i programmi o le alleanze elettorali dell’ultima ora a rappresentare quel blocco sociale che ha bisogno di coesione e di pratiche sindacali, sociali e culturali comuni, insomma di sostanza che stride con la semplice e riduttiva  rappresentanza istituzionale

Federico Giusti

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