December 22, 2024
Tra minijob e minisalari, il mercato del lavoro dopo la riforma Schröder-Hartz è tra i più iniqui d’Europa. Tanto che il Belgio ha denunciato Berlino alla commissione Ue.
Un’analisi dei mutamenti recenti del mercato del lavoro in Germania non può non partire ricordando la riforma del mercato del lavoro Schröder- Hartz avviata nel 2003 e sottolineando i suoi effetti sulla situazione economica e sociale del paese.
Tra i punti specifici più importanti della riforma va sottolineata la creazione dei cosiddetti minijob (lavori con retribuzione di 400-500 euro mensili e senza carichi contributivi per i datori di lavoro); inoltre, l’approvazione di una serie di provvedimenti che favorivano la liberalizzazione e la precarizzazione del mercato del lavoro; infine, l’avvio della ormai tristemente famosa, almeno in Germania, normativa Hartz IV, che prevedeva la riduzione degli importi degli assegni di disoccupazione e la diminuzione della loro durata.
Le conseguenze sino ad oggi
La riforma ha avuto apparentemente grande successo. Da allora le fortune economiche della Germania sono rifiorite, grazie sostanzialmente ad un progressivo boom delle esportazioni.
Ma bisogna sottolineare che, negli anni in cui si varava la norma, tale sviluppo è stato favorito da una parallela forte crescita del commercio internazionale, collegata in particolare al boom economico dei paesi del terzo mondo, boom che è durato anche oltre la crisi. D’altro canto, appare opportuno ricordare anche le pesanti conseguenze che le riforme hanno avuto sul tessuto sociale del paese e sulla sorte di molti milioni di lavoratori.
Certo, nel 2012 si registravano 2,6 milioni di persone occupate in più rispetto al 2005; ma, intanto, mentre il livello della produttività del lavoro cresceva in media ogni anno dell’1% tra il 1995 e il 2005, tra il 2005 e il 2012 l’aumento si era ridotto allo 0,5%. Inoltre, dal 2002 al 2011, secondo i dati Eurostat, mentre la media annua di aumento dei salari nei paesi dell’Unione Europea è stata del 3,1%, in Germania essa si è collocata sull’1,6%, i risultati più bassi di tutta l’Unione.
Dal 2003 in poi si è avuta una crescita esponenziale del lavoro precario. Oggi il fenomeno interessa circa il 25% dei lavoratori.
Su di un altro piano, il tasso di sindacalizzazione della Germania da allora ha cominciato a declinare ed oggi esso si aggira a fatica intorno al 20% della popolazione attiva del paese. La forte crescita del lavoro precario ha contribuito al drastico calo delle adesioni alle organizzazioni sindacali.
Il tasso di disoccupazione a fine agosto 2013 risultava essere del 6,8%, certamente il valore più basso tra i paesi europei. Per quanto riguarda la disoccupazione giovanile, le cose non cambiano molto; secondo i dati Eurostat, mentre al giugno 2013 essa era pari al 58% in Grecia, al 55% in Spagna, al 40% in Portogallo e al 38% in Italia, toccava solo l’8% in Germania.
Va peraltro sottolineato come il livello della disoccupazione presenti disparità eclatanti tra le differenti regioni del paese. Esso è molto più elevato della media, ad esempio, nei territori dell’ex Germania Est. Così, secondo la Bundesagentur fur Arbeit, nel Sachsen Anhalt esso era pari al 10,8%, nell’area di Berlino all’11,7%. Per contro, esso raggiungeva livelli minimi in alcune regioni del Sud, mostrando un valore del 4,2% nel Baden-Wuttemberg e del 3,8% in Baviera.
Su di un altro fronte, bisogna considerare che, sempre per l’agenzia tedesca per il lavoro, nell’agosto 2013 3.868.000 mila persone, escludendo quelle che lavoravano a tempo parziale, risultavano sottoimpiegate. Il personale temporaneo era poi valutato a metà 2012 in circa 900.000 unità.
È da sottolineare che il fenomeno dei minijob interessava alla stessa data ben 7.500.000 di persone. I lavoratori vengono pagati 3-4 euro all’ora. Il fenomeno riguarda per una parte molto rilevante gli immigrati, in particolare romeni e bulgari.
Esso ha da tempo attratto l’attenzione non benevola dei paesi vicini. In particolare, il Belgio ha accusato formalmente la Germania di dumping sociale, chiedendo un intervento della Commissione europea. In effetti, l’esistenza di tali normative spinge le imprese dei paesi vicini, Belgio, Olanda, Francia, a delocalizzarvi la produzione di beni, in particolare nei settori in cui c’è un’alta incidenza della manodopera sul costo dei prodotti. Da notare che il bilancio pubblico si fa carico ogni anno di circa 9 miliardi di euro per sussidiare i lavoratori con salari troppo bassi; così le aziende scaricano una parte consistente dei costi del lavoro sullo stato.
Bisogna anche ricordare come ci siano grandi differenze di retribuzioni tra il settore industriale e quello dei servizi, comparto quest’ultimo ancora poco sviluppato nel paese; si tratta delle più grandi differenze esistenti a livello europeo.
Gli accordi di governo
C’è però qualche segnale di un possibile miglioramento della situazione. Sulla stampa si dà conto del probabile raggiungimento di un accordo tra il partito della Merkel e quello socialdemocratico per la formazione di un governo di coalizione. Tale accordo prevederebbe, oltre all’aumento degli stanziamenti pubblici per l’istruzione, la sanità e le infrastrutture, l’istituzione di un salario minimo obbligatorio che dovrebbe essere fissato a 8,50 euro, ben al di là di quanto guadagnano oggi i lavoratori che ricevono un minijob. Il nuovo livello potrebbe poi contribuire ad elevare tutta la struttura salariale del paese, come era stato da tempo chiesto a gran voce da molte parti ed aiutare anche ad aumentare le esportazioni da parte dei paesi del Sud Europa. Ad ogni modo, uno studio fatto da un istituto di ricerca tedesco indica che dell’istituzione del salario minimo a 8,5 euro l’ora beneficerebbe subito il 17% della forza lavoro.
In conclusione, mentre il risultato complessivo delle normative Schröder-Hartz è stato quello di rafforzare l’economia del paese, le conseguenze si sono rivelate come molto negative per una fetta importante della società tedesca. Esse hanno comportato, o accentuato, un grande frazionamento del mercato del lavoro, tra i lavoratori protetti e quelli precari, tra l’ovest e l’est, tra il nord e il sud del paese, infine tra il settore industriale e quello dei servizi. L’ipotesi di accordo per il nuovo governo tedesco, se confermato, sembra portare qualche nota positiva; ne potrebbe uscire un certo progresso nella condizione del lavoro salariato del paese, almeno attenuando alcune delle storture precedenti.
tratto da Il Manifesto 27 novembre 2013
Alcune osservazioni
Considerate che la Germania dall’entrata in vigore dell’euro ha tratto vantaggi in termini di:
1) maggior competitività del proprio export a seguito del miglior rapporto di cambio che ha l’euro (minor valore) rispetto al più quotato marco, ciò è confermato dal fatto che l’exoprt tedesco è aumentato maggiormente verso i paese extra euro che non all’interno di eurolandia.
Il valore dell’export tedesco ammonta al 50% del proprio pil mentre per l’Italia si ferma al 28% (secondo paese dell’eurozona a maggior vocazione di export).
2) che a seguito della crisi del 2008 e soprattutto di quella dell’euro dal 2011 la Germania ha iniziato ad attirare una enorme massa di capitali che sono stati investiti nei propri titoli di stato a danno dei paesi cosiddetti ‘periferici’ (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda ecc..) nei quali i tassi salivano e con essi i rischi di rimborso (famoso spread). Gli investitori istituzionali, i burattinai della finanzia mondiale, meglio noti come ‘mercati’ hanno preferito investire a tassi bassissimi, talvolta anche negativi, nei sicuri ‘bund’ piuttosto che investire in titoli di paesi in crisi finanziaria. Per cui la Germania ha finanziato il debito pubblico a tasso praticamente zero mentre le proprie banche investivano in quelli dei paesi periferici a tassi molto più elevati (dal 5% in su), conseguendo ingenti guadagni, una volta ottenute garanzie daala Troika col fondo salva stati. Ma soprattutto, e qui arrivo al beneficio sull’economia reale, gli imprenditori tedeschi hanno ottenuto prestiti a tassi bassissimi mentre i nostri o non ne ottenevano a causa del ‘credit crunch’ o pagavano interessi insostenibili per continuare ad investire.
Non a caso dall’inizio della crisi del 2008 l’Italia ha perso oltre 8 punti di Pil invece la Germania invece non solo ha già recuperato la contrazione della recessione ma è ben oltre il proprio pil del 2008.
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