Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

In ricordo di Augusto Graziani: una lezione su Marx 150 anni dopo

Postato il 10 Gennaio 2014 | in Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

Riceviamo e pubblichiamo

Augusto Graziani se ne è andato il 5 gennaio scorso a Napoli, la stessa città dove era nato nel 1933. Il suo pensiero non è riducibile solo al marxismo, men che meno all’operaismo. Era uno dei grandi maestri dell’economia politica critica che negli anni Settanta dialogarono e si confrontarono anche con i giovani rappresentanti del pensiero operaista, soprattutto con coloro che avevano vissuto l’esperienza di Primo Maggio. I suoi interventi sulla teoria monetaria, sullo sviluppo economico e sociale italiano, sulla storia dell’economia politica e sulla sua critica restano fondamentali. Aveva la capacità di rendere accessibili a tutti delle questioni anche molto complicate, senza eccessive approssimazioni e dichiarando sempre in modo chiaro da che parte egli stava, che punto di vista egli assumeva. Pubblichiamo alcuni estratti di una sua lezione tenuta a Pontedera il 12 Novembre 1983 dedicata al pensiero economico di Marx[1].

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Forse quello che ci interessa di più al giorno d’oggi è di vedere quali idee il pensiero economico di Marx ci ha lasciato al punto tale da potere noi farne uso nell’interpretazione dei fatti economici.

La teoria economica di Marx non è una teoria strettamente economica. Nel pensiero di Marx tutto si intreccia, il pensiero economico, il pensiero politico, il pensiero filosofico; forse sono pochi gli autori che hanno tenuto continuamente presenti tutte le componenti del pensiero umano e ne hanno fatto un intreccio continuo, e in Marx si ritrovano continuamente queste coerenze fra i diversi aspetti dell’analisi.

Per comprendere il pensiero economico di Marx è necessario partire anzitutto dalla sua concezione della società.

Marx, prendendo in questo da economisti che lo avevano preceduto, gli economisti classici, comincia col fare una contrapposizione ideale tra una società che possiamo chiamare ‘società semplice’ come la chiamava Adam Smith, e la società capitalistica. Come società semplice possiamo immaginare una società agricola in cui le famiglie sono anche proprietarie della terra che coltivano. Quindi abbiamo un insieme di aziende agricole familiari; queste aziende agricole, avendo sostanzialmente tutto quello che occorre per la produzione, possono realizzare direttamente il prodotto; poi i prodotti vengono scambiati se vi sono esigenze dello scambio.

Ogni famiglia agricola costituisce un’azienda, un piccolo cosmo autonomo e sufficiente. Se poi vuole entrare in rapporti di scambio, lo farà, dopo realizzata la produzione, per scambiare merci su un piano di parità con altre famiglie che hanno svolto esattamente le stesse operazioni.

Una volta definita questa società semplice (che forse non è mai esistita; tutti gli economisti del’700 la descrivono, nessuno s’impegna proprio a dire che sia esistita) per contrasto definiamo la società capitalistica.

La società capitalistica è una società in cui, viceversa, la situazione è opposta e non si verifica questa congiunzione tra lavoro e mezzi di produzione. I lavoratori da un lato, sono lavoratori che hanno soltanto le loro braccia per lavorare e dall’altro vi sono gli imprenditori capitalisti i quali sono i proprietari di quelli che Marx chiama i mezzi di produzione. Se la società è agricola, dovrebbe essere la terra; nel mondo moderno dell’industria saranno impianti, macchinari, miniere, risorse, semilavorati, prodotti intermedi, tutto quello che costituisce l’insieme dei mezzi di produzione. Allora, la caratteristica centrale della società capitalistica, dice Marx, è quella di essere basata su questa separazione: da un lato lavoratori nullatenenti, senza mezzi di produzione, dall’altro capitalisti che hanno i mezzi di produzione.

Caratteristica centrale della società capitalistica è quella di essere una società divisa in classi. Le due classi centrali sono appunto: da un lato la classe dei capitalisti imprenditori, proprietari dei mezzi di produzione, dall’altra la classe dei lavoratori nullatenenti, proletariato.

È ovvio, dice Marx, che se nel capitalismo c’è la struttura di classe, le due classi sono separate, i lavoratori non hanno mezzi di produzione e i capitalisti non hanno lavoro, il primo atto deve essere un ricongiungimento di queste due forze perché lavoro e mezzi di produzione devono agire in collaborazione per realizzare il prodotto finito.

Allora vediamo schematicamente come si svolge il processo economico nella società di classe, nella società capitalistica, nel capitalismo come lo vede Marx.

Procedo schematicamente. Primo punto I capitalisti che hanno i mezzi di produzione, ma non hanno il lavoro, devono compiere un primo atto, questo atto di ricongiungimento e cioè acquistare forza-lavoro. Quindi sul mercato del lavoro i capitalisti acquistano forza-lavoro e pagano un salario. Come pagano questo salario? Questo è un quesito non facile da risolvere. Immaginiamo che lo paghino con moneta, con una promessa di pagamento dando ai lavoratori un pezzo di carta che potrebbe essere un biglietto di banca, o anche soltanto una promessa di pagamento, in cui si dice che il lavoratore tale ha lavorato tante ore, e quindi può andare al magazzino e potrà prelevare tante merci. Il salario è pagato così in moneta, con dei pezzi di carta che danno accesso al mercato. Questa moneta non è in sé un bene utile; è, come diceva Stuart Mill, il biglietto di ingresso nel mercato per comprare qualche cosa. Il lavoro è quindi pagato con queste promesse di pagamento.

Una volta acquistata la forza-lavoro il capitalista ha in mano la forza-lavoro. Questo è un punto molto importante in Marx, un punto che contraddistingue il capitalismo. Il capitalista, l’imprenditore, una volta comprata la forza-lavoro, e una volta pagato il salario, con questa promessa di pagamento, diventa padrone del lavoro, può usarlo come vuole, nel senso che può decidere lui in maniera totalmente autonoma che cosa produrre, come produrre, quanto produrre.

Il lavoratore si è impegnato a svolgere tante ore di lavoro, ma non decide se si debbano produrre beni di consumo o macchinari, non decide quali tecnologie si debbano usare, se si debba produrre molto, se si debba produrre poco; tutte queste decisioni sono decisioni autonome dell’imprenditore-capitalista. Il lavoratore deve soltanto svolgere tante ore di lavoro e poi sarà libero di spendere il suo salario come vuole. Quindi nella società capitalistica le decisioni di produzione non sono prese collettivamente come potrebbero essere prese in una società familiare, sono decisioni prese in maniera autonoma, da una sola classe, la classe degli imprenditori capitalisti. La classe dei lavoratori non entra nelle decisioni di produzione.

Una volta realizzata la produzione, l’imprenditore, come conseguenza immediata, in quel momento, è proprietario assoluto e totale delle merci prodotte. Le merci prodotte sono dell’imprenditore-capitalista il quale le deve vendere perché presumibilmente l’imprenditore-capitalista per pagare il salario si è fatto anticipare questa liquidità da un finanziatore, da una banca, e adesso deve vendere le merci, ripagare la banca e chiudere il ciclo del capitale. Quindi l’imprenditore porta le merci al mercato: in parte le merci saranno vendute agli stessi lavoratori salariati, i quali salariati spendono il loro salario e comprano le sussistenze e i beni di consumo. In parte le merci saranno vendute ad altre imprese e cioè gli imprenditori-capitalisti se le scambiano fra di loro (se sono impianti, o macchinari, è chiaro che gli impianti non vengono venduti a un salariato; gli impianti fabbricati da un’impresa vengono venduti a un’altra impresa, cioè circolano all’interno delle imprese). Quando la vendita è realizzata, se tutto va bene, le imprese hanno recuperato le loro erogazioni iniziali e possono rimborsare il finanziatore. A questo punto, direbbe Marx, il ciclo del capitale è concluso.

Allora, osserva Marx, qual è la sostanza di questo ciclo del capitale? La sostanza è proprio quella del circuito chiuso in cui l’imprenditore apre il ciclo con una certa quantità di moneta, perché si è fatto prestare dalla banca quello che gli occorreva per pagare i salari, comincia con questo finanziamento, diciamo di 100, alla fine realizza il prodotto, poi lo vende, incassa, se tutto va bene rimborsa il debito iniziale alla banca e quello che gli è rimasto in mano (se tutto è andato bene gli è rimasto in mano qualche cosa), quello è il suo profitto. Allora, osserva Marx, ci troviamo di fronte a una classe di capitalisti la quale conduce il processo economico con un disinteresse completo per la natura merceologica dei beni prodotti. Al capitalista, in fondo, non interessa produrre l’una o l’altra merce poiché di queste merci egli non dovrà fare un uso personale. A lui interessa soltanto l’esito finale cioè che dopo vendute le merci e dopo rimborsato il finanziatore, resti per lui una differenza netta che è il suo profitto, è la ricchezza che lui sta accumulando. Marx esprime questa riflessione dicendo: “il capitalista produce soltanto per accumulare ricchezza nella forma generale”. A lui non interessa la ricchezza nella forma particolare, a lui interessa accumulare questa ricchezza in forma di denaro – altra parola che Marx usa non per indicare le monete o i biglietti di banca, ma per indicare la ricchezza nella sua forma più generale. La forma particolare cambierà di volta in volta: una volta il capitalista vorrà miniere, una volta vorrà fabbriche, una volta vorrà raffinerie, un’altra volta vorrà industrie elettroniche, inseguendo il progresso tecnico, il profitto nei mercati là dove le prospettive sono migliori: ma non sarà mai la forma merceologica che a lui interessa, lui inseguirà quella forma merceologia che gli promette il profitto maggiore. Quindi quello che lui in realtà insegue la ricchezza nella sua forma generale, chiamiamola pure denaro, come Marx spesso la chiama.

Stabilito questo punto, Marx solleva il quesito centrale. Visto che le cose vanno così come fa l’imprenditore capitalista a guadagnare un profitto netto? Da dove viene questo profitto netto? In quali condizioni c’è questo profitto netto? Attraverso tutta questa metamorfosi del capitale, dal denaro, al lavoro, alla merce, di nuovo al denaro, come avviene questo miracolo della formazione del profito? Questo è il quesito centrale dell’analisi del capitalismo.

È chiaro, credo, da quello che ho detto, che quando Marx solleva il problema del profitto, Marx ha un’idea ben chiara in mente e cioè che se al termine del ciclo del capitale, dopo tutte queste metamorfosi del capitale, dal denaro al denaro, se resta qualcosa in mano al capitalista, all’imprenditore, questo deve essere un profitto netto; non è cioè il compenso che l’imprenditore riceve per aver lavorato, diretto, organizzato la fabbrica, sorvegliato gli operai. Nei casi normali un profitto c’è e Marx pensava che ce ne fosse anche in misura abbondante, perché l’imprenditore capitalista, al di sopra del suo compenso per il lavoro direttivo, guadagna qualche cosa che non deriva da nulla. Non deriva da una prestazione produttiva, non deriva da un lavoro fatto, perché quello è un lavoro direttivo che è pagato a parte come salario direttivo, deriva soltanto dalla posizione del capitalista, dal fatto che il capitalista si trova in questa posizione privilegiata di avere lui messo in moto il ciclo del capitale.

Abbiamo detto che l’imprenditore apre il ciclo del capitale con un finanziamento che riceve dalle banche, poi va sul mercato del lavoro, compra la forza-lavoro. Ecco il quesito: quanto la paga questa forza-lavoro? C’è un punto centrale, che non dobbiamo dimenticare: che nel processo economico capitalistico il livello del salario non ha nulla a che fare, non dipende in maniera diretta, non è collegato strettamente con quello che il lavoratore produce. Io, salariato, vado a lavorare in una impresa tessile e produrrò un certo quantitativo di tessuti, il mio salario è un’altra cosa, è commisurato – diciamo – alle trattative che si svolgono sul mercato del lavoro, ma certamente non è commisurato al prodotto. Allora da cosa dipende il salario? Qui la teoria di Marx è precisa anche se molto aperta. Marx fa questo ragionamento: mettiamoci nei panni di questi capitalisti come classe. Questi cosa vogliono fare? Abbiamo detto che i capitalisti vanno dal denaro al denaro, vogliono guadagnare un profitto, vogliono ricchezza in generale. Per i capitalisti il lavoro, la forza-lavoro in generale, i salariati cosa sono? Sono semplicemente un bene intermedio, un prodotto intermedio nel corso della metamorfosi del capitale, perché per guadagnare un profitto, a un certo punto, per convertire più denaro in più denaro, è necessario passare attraverso la forza-lavoro e comprare la forza-lavoro, organizzare il lavoro, produrre le merci, ecc. ecc. Allora, la forza-lavoro per il capitalista è soltanto un bene intermedio; è un bene strumentale, esattamente come il bestiame in un’azienda agricola, esattamente come le macchine nell’impresa industriale, qualche cosa che bisogna tenere in vita perché è necessario per realizzare il profitto, ma qualche cosa che quando la si è pagata nella misura necessaria perché non muoia, si è fatto tutto quello che si deve fare. Allora tutto il problema è di stabilire quanto bisogna dare come salario alla classe lavoratrice perché la classe lavoratrice si riproduca. Questo quesito evidentemente ha una risposta aperta perché non c’è una regola precisa. La regola del salario non è una regola fisiologica, è una regola storica. Man mano che la storia procede, la storia fa crescere i livelli di vita, le esigenze del lavoratore, le pretese della classe lavoratrice: c’è un conflitto continuo fra le due classi evidentemente, e in ogni epoca storica ci sarà un livello storico del salario.

Tutto il prodotto non viene distribuito in salario: al salario si dà soltanto quello che è necessario per la sussistenza storica. La differenza è una differenza di cui il capitalista, essendo proprietario di tutte le merci, diventa proprietario assoluto Questa è la prima radice del profitto. Come lo misuriamo questo profitto? E Marx dice: potremo ragionare così. Prendiamo la giornata lavorativa. Possiamo immaginare che delle otto ore, tanto per dire (ai tempi di Marx erano ben più di otto) delle otto ore che il lavoratore lavora, un certo numero, non so quattro-cinque, servono per produrre tante merci quante poi costituiscono il salario. Per queste prime quattro-cinque ore possiamo dire che il lavoratore lavori per sé, perché lavora per produrre quelle merci che lui stesso consumerà (non immediatamente: gli danno salario monetario poi lui va al mercato e riesce con il salario a comprare cinque ore di merci). Il resto delle ore, se il lavoro continua fino alle otto ore, sono ore che il lavoratore lavora non per sé ma per il padrone. Questo, dice Marx, è classificabile come un plus-lavoro, come un lavoro che il capitalista non riuscirebbe mai a estrarre dal lavoratore se non potesse approfittare della sua posizione di forza. Come può il capitalista indurre il lavoratore a lavorare cinque ore per sé e poi altre tre ore soltanto per il padrone? È evidente che ci riesce soltanto perché il lavoratore è un proletario senza mezzi di produzione, non ha da solo nessuna possibilità di svolgere una produzione autonoma: l’unica sua possibilità è di lavorare come lavoratore salariato e quindi è preda di questa appropriazione indebita, che Marx chiama sfruttamento, che la classe dei capitalisti riesce ad eseguire sui lavoratori proprio perché i capitalisti sono gli unici detentori dei mezzi di produzione.

La radice del profitto sta soltanto, secondo Marx, nella possibilità che i capitalisti hanno di appropriarsi di una parte del lavoro degli operai. È plus-lavoro che diventa plus-valore, diventa profitto, è un’appropriazione indebita, è uno sfruttamento. La radice del profitto sta nello sfruttamento che la classe dei capitalisti esercita ai danni della classe operaia. Estrazione di plus-valore o sfruttamento. Infatti – e questo è un punto sui cui di nuovo vi invito a riflettere -, siccome la radice è questa, Marx dice: stiamo bene attenti al fatto che lo sfruttamento si realizza proprio nel momento della produzione; cioè nel momento in cui il capitalista si appropria della forza lavoro, fa lavorare il lavoratore per otto ore ma tre ore se le piglia lui. È nel momento in cui i rapporti di produzione consentono al capitalista di usare il lavoro come lui ritiene opportuno nella fase di produzione, che si realizza lo sfruttamento. Poi sul mercato non c’è imbroglio. Non è che il capitalista venda le merci a prezzi diversi da quelli che dovrebbe o il capitalista esegua una violenza sul lavoratore, è unicamente nei rapporti di classe, nel fatto che il capitalista abbia i mezzi di produzione e il lavoratore no, che il lavoratore da solo non possa fare nulla e debba per forza vendersi come lavoro salariato, è in questi rapporti di produzione che risiede la possibilità dello sfruttamento.

Siamo partiti misurando tutto in moneta; visto che abbiamo fatto questa ulteriore riflessione, che abbiamo accertato che la base dello sfruttamento sta in questa appropriazione di ore, noi potremmo fare anche quest’altra riflessione e dire: alla fine il profitto, la ricchezza di cui il capitalista, come classe, si appropria è un certo numero di ore di lavoro. Allora tutte le merci prodotte nella giornata da un lavoratore sono otto ore, di cui cinque ore sono salario pagato, tre ore è il plus-valore estratto. Per il capitalista, visto che tutta la radice del fenomeno è in questa possibilità di dividere la giornata lavorativa in ore pagate e in ore non pagate, quello che consente di realizzare un profitto, cioè di accrescere il valore della ricchezza, sono proprio le ore non pagate, quindi la radice del fenomeno sta nelle ore di lavoro. Che cosa consente la valorizzazione del capitale, cioè l’accumulazione della ricchezza, l’aumento continuo, il profitto continuo? È proprio la presenza di ore lavorate, ma non pagate. Quindi quando parliamo di valore di una società di classe, dobbiamo parlare di valore da punto di vista della classe dei capitalisti e per i capitalisti quello che conta è quello che è valore per loro; ma per il capitalista il valore non è il valore d’uso, perché abbiamo detto che al capitalista che si producano burro o cannoni non importa niente, per il capitalista il valore è la ricchezza che lui accumula e siccome la radice di questa accumulazione sta nelle ore non pagate, è corretto, è analiticamente rigoroso, misurare il valore in ore di lavoro. Le merci valgono per le ore di lavoro che contengono. Il plusvalore è una certa quantità di ore di lavoro che sono state eseguite ma non pagate. Quindi dal punto di vista dell’intera classe capitalistica il plusvalore estratto è l’insieme, il monte delle ore non pagate. Questo è il valore in più creato. Questo è quello che ha valorizzato il capitale. Questo è quello che consente di immettere 100 nel ciclo del capitale e ricavarne 120. L’unica cosa che è valore per il capitale sono le ore non pagate. Di qui l’identificazione che Marx fa tra valore, come espressione terminologica, e lavoro eseguito come fatto sottostante.

Come è nato il primo capitalismo? Come si è svolta la cosiddetta accumulazione primitiva? Forse che si è svolta, come dicono tante volte economisti di parte opposta, perché alcuni uomini previdenti invece di consumare tutto il prodotto hanno cominciato a risparmiare una parte e così hanno fabbricato i primi attrezzi e poi con questi attrezzi hanno aumentato la produttività del lavoro e così via? No. Marx rifiuterebbe questa spiegazione, Marx direbbe: alle origini del capitalismo il problema della classe proprietaria è stato quello di procurarsi l’unico ingrediente necessario per l’accumulazione – perché ce ne vuole uno solo – cioè lavoro salariato senza mezzi di produzione.

Come hanno fatto i capitalisti inizialmente a procurarsi lavoro salariato senza mezzi di produzione? Evidentemente hanno messo in opera tutti i mezzii di cui disponevano per espellere lavoro dall’agricoltura, strappare lavoratori dalla loro risorsa iniziale, trasformare questi lavoratori del sistema feudale in cosiddetti lavoratori liberi cioè lavoratori che vendono il loro lavoro sul mercato e così hanno avuto a disposizione del lavoro salariato su cui esercitare il processo produttivo. Quindi il problema dell’accumulazione primitiva su cui tanto ci si è soffermati non è un problema di furto nel senso che i capitalisti si siano appropriati di terre. È vero che i capitalisti inglesi recintavano terreni, però lo scopo non era quello di appropriarsi della terra; lo scopo vero era quello di espellere i lavoratori dall’agricoltura per trasformarli in lavoratori salariati perché una volta trasformati in lavoratori salariati diventavano quella massa di lavoro senza mezzi di produzione sui cui tutto il procedimento che abbiamo descritto poteva finalmente svolgersi.

E successivamente come si perpetua l’accumulazione del capitale? La risposta è sempre la stessa. Visto che la base dell’accumulazione della ricchezza è la disponibilità del lavoro salariato, il problema centrale della classe capitalistica è di fare in modo che questo lavoro salariato non si esaurisca mai. Quindi bisogna continuamente ricostruire questa riserva di lavoro salariato, questa che Marx chiama l’esercito industriale di riserva, cioè una massa di lavoratori disponibili, senza mezzi di produzione, che si possono vendere solo come salariati, perché quella è la base dell’accumulazione. Marx dedica molta attenzione a spiegare come il progresso tecnologico, l’estensione del capitale a nuove aree geografiche, serva a ricostruire continuamente questa forza-lavoro. Un economista marxista per esempio, di fronte agli eventi economici del nostro tempo, direbbe: il salto tecnologico che l’industria italiana sta realizzando, le ondate di licenziamenti a cui assistiamo sono proprio la vita funzionale del capitale che serve a “mettere in soprannumero” – dome diceva Marx – quantità sempre maggiori di lavoratori salariati, ricostruire un esercito industriale di riserva per riprendere su base allargata l’accumulazione. È quello di cui sentiamo parlare su base internazionale: l’estensione dell’industria ai nuovi paesi industriali, l’industria che fiorisce nell’Estremo oriente, nell’America latina, nei Paesi Mediterranei dove prima era sconosciuta, che cos’è? È il capitale, direbbe un marxista, che estende la sua accumulazione a nuove riserve di forza-lavoro, per estendere la base della propria accumulazione perché la base dell’accumulazione è sempre la forza-lavoro e il capitale ha bisogno di questo ingrediente continuo su cui costruire il proprio profitto.

Quindi la conclusione è che il vero passaggio da una economia capitalistica così come il perpetuarsi dell’economia capitalistica è il passaggio da un’economia col lavoro salariato e il perpetuarsi continuo di questa presenza di lavoro salariato. Poiché la caratteristica del lavoro salariato è quella di ricevere un pagamento in moneta – mentre il lavoratore della terra, del sistema feudale, veniva pagato in natura perché viveva sulla terra – possiamo anche dire che la caratteristica del capitalismo è il passaggio da un’economia di baratto ad un’economia monetaria – le due cose sono corrispondenti: passare dal lavoro schiavizzato al lavoro salariato, o passare da economia di baratto a economia monetaria sono cose strettamente parallele. Non si possono capire le funzioni della moneta in Marx se non si capisce che per Marx la caratteristica del capitalismo è quella di essere un’economia di classe basata sull’uso di lavoro salariato.

Veniamo adesso al problema finale del capitalista. Il capitalista ha acquistato lavoro salariato approfittando della sua posizione di unico detentore dei mezzi di produzione, ha costretto il lavoratore a svolgere delle ore non pagate, con questo ha costituito la base; ha svolto uno sfruttamento, ha realizzato un plusvalore, adesso ha costituito la base del profitto, ma non ha ancora realizzato un profitto perché ha realizzato in natura delle merci che sono sue, ma per realizzare un profitto nella sua forma finale deve anche vendere queste merci sul mercato, rimborsare il finanziatore e deve restargli qualche cosa in forma di ricchezza monetaria che è il suo profitto netto Quindi deve trasformare il plusvalore in profitto, cioè per realizzare il profitto nella sua forma finale, il capitalista deve vendere le merci sul mercato, completare il ciclo del capitale, realizzare l’ultima metamorfosi, cioè ritrasformare le merci in moneta. Qui sorgono, evidentemente, delle ulteriori difficoltà. Se tutto va bene il ciclo si conclude, ma non è detto che tutto vada bene, anzi Marx ritiene che nel capitalismo ci siano una serie di fattori che ostacolano il capitalista in questa sua metamorfosi finale e molto spesso, con fasi ricorrenti, gli impediscono di realizzare il profitto finale. Il capitalista va al mercato e vende le merci. Siamo noi certi che troverà dei compratori? Da un punto di vista potenziale certamente sì. I lavoratori spenderanno i loro salari, i capitalisti si scambieranno le merci fra di loro, i beni di produzione, abbiamo detto: però qui si inserisce un punto che è strettamente connesso al capitalismo. Se noi pensiamo alla domanda di consumi, la domanda di consumi proviene dai lavoratori. Presumibilmente i lavoratori spenderanno tutto il loro salario; quindi i salariati spendono tutto il loro salario monetario; se comprano poco questo dipende dal fatto che hanno guadagnato poco, non dal fatto che vogliono accumulare moneta e scorte liquide; quindi un problema di sottoconsumo sarà connesso al fatto che i salari sono bassi, ma non un problema perché se la classe dei capitalisti vuole combattere un fenomeno di sottoconsumo farà una politica di alti salari come tante volte i capitalisti hanno proposto di fare e la domanda di consumi aumenta immediatamente.

Il vero problema della vendita, invece, sta nell’altro settore: in quell’insieme di merci che essendo mezzi di produzione (impianti, macchinari, semilavorati, semiprodotti, ecc.) devono essere scambiati all’interno del settore delle imprese. Una macchina deve essere prodotta da una impresa e venduta ad un’altra impresa che la utilizzerà. In questo scambio è necessario che ogni singolo capitalista trovi la sua controparte cioè un altro imprenditore che vuole comprare quella macchina che ha fabbricato lui. Perché sorgono delle difficoltà a questo punto? Sorgono delle difficoltà, osserva Marx, proprio per quella caratteristica di base del capitalismo e dell’azione del capitalista il quale vuole accumulare non ricchezza specifica, ma ricchezza in forma generale. Al capitalista non importa avere le miniere per le miniere, vuole le miniere se le miniere rendono di più; domani vorrà fabbriche di macchine utensili, dopodomani vorrà fabbricare calcolatrici elettroniche: il capitalista insegue il profitto; la forma tecnica del prodotto è cosa alla quale è totalmente indifferente. Questo stesso fatto, se ci si riflette un istante, introduce un elemento di incertezza. Se io voglio una merce per usarla, (se io ho freddo e voglio comprare un cappotto) so benissimo di doverla comprare e di volere un cappotto, ma se io voglio invece una merce soltanto per il profitto che mi renderà, voglio comprare una fabbrica solo per guadagnare da denaro altro denaro, è evidente che io sto giocando sull’avvenire, sto chiedendomi che cosa faranno i mercati, sto chiedendomi che cosa faranno i capitalisti miei rivali, se entreranno nello stesso settore, se c’entreranno con tecnologie più avanzate, se guadagnerò profitti o andrò in fallimento.

Il fatto che ci sia incertezza produce un’altra conseguenza e cioè che possono verificarsi dei momenti di attesa. Mettiamoci nei panni di un imprenditore capitalista. Io ho venduto le mie merci, sono stato fortunato, ho in mano del denaro, moneta liquida; evidentemente devo farlo fruttare, per il momento io non so bene dove mi conviene investire, se mi conviene ampliare la fabbrica che ho già, se mi conviene cambiare settore, se mi conviene cambiare zona geografica e andare a trenta chilometri o a cento chilometri perché lì ci sono altre possibilità. Si apre così una fase di incertezza in cui – questo è un punto centrale – può essere perfettamente razionale – cioè non un capriccio, ma il frutto di un calcolo – può essere perfettamente razionale non investire, non spendere, tenere provvisoriamente moneta liquida.

Ma se un capitalista decide di trattenere moneta – e dal suo unto di vista fa benissimo – vuol dire che la domanda di mercato cade. Un altro capitalista avrà delle merci invendute. La domanda globale cade e si precipita in una crisi depressiva: l’economia monetaria è la base del capitalismo, il lavoro salariato e la moneta sono quelli che consentono il profitto, ma la stessa economia monetaria, per una strana contraddizione, è la rovina del capitalismo perché proprio la presenza della moneta consente il formarsi di queste scorte liquide e le crisi dovute a un crollo di domanda. Quindi la moneta al tempo stesso l’alimento e la rovina del capitalismo.

Però la moneta è soltanto il mezzo tecnico che consente la crisi. L’origine profonda della crisi, lo abbiamo detto, sta nella decisione del capitalista di non spendere; e il capitalista non spende, perché ha delle incertezze, perché trova che il salario è troppo alto e il suo margine di profitto sarebbe troppo basso, cioè c’è un conflitto fra capitale e lavoro; perché trova che i suoi concorrenti l’hanno ormai spiazzato dal mercato e bisogna cambiare aria, cambiare settore, cioè c’è un conflitto tra capitalisti; perché trova che il suo banchiere gli chiede un tasso di interesse troppo alto e allora gli succhi via tutto il profitto sotto forma di interessi e a lui, come profitto industriale, non resta niente e cioè c’è un conflitto fra capitale industriale e capitale finanziario, ma è sempre nel settore reale dei rapporti sociali, fra i segmenti della società che la causa della crisi va ricercata. La moneta consente tecnicamente il realizzarsi della crisi, ma è solo un fattore necessario, non è la causa profonda.

È sempre un conflitto sociale che dà luogo alla crisi: si tratta di andare ad accertare dove, volta per volta, quel conflitto sociale si ritrova.

[1] L’intervento integrale della relazione registrata e sbobinata senza essere rivista dall’autore è pubblicato in A. Graziani, A. Cecchella, P. Sylos Labini, S. Lombaridni, “1883-1983 K. Marx – J.M. Keynes cent’anni dopo. Due economie e a confronto”, Ets Editrice, Pisa 1984.

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