November 28, 2024
Pochi giorni fa, il CdA di Poste Italiane ha approvato il piano industriale e strategico 2015-2020.
Previsti 3 miliardi di investimenti in 5 anni, con l’obiettivo di arrivare a 30 miliardi di fatturato nel 2020. In merito, così si è espresso l’Ad Francesco Caio: “Un programma di crescita in investimenti, tecnologia e persone per un’azienda più trasparente e competitiva al servizio del Paese”. Aggiungendo che “non sono previsti licenziamenti, ma prosegue il programma di uscite agevolate già iniziato nel 2010, mentre sono previste 8 mila assunzioni, di cui il 50% tra giovani laureati e nuove professionalità”. Tutto bene, dunque? Non proprio e per diversi motivi.
Il primo riguarda proprio l’occupazione: il piano prevede la chiusura di altri 500 sportelli dei 13.000 attuali –e naturalmente si tratta di quelli più periferici, che spesso svolgono non solo un servizio pubblico, bensì una primaria funzione sociale- e un piano di esuberi che dovrebbe aggirarsi sulle 15.000 persone degli attuali 143.000 dipendenti.
Il secondo riguarda il servizio e le tariffe: si prevede una riduzione del servizio di recapito universale –socialmente utile ma decisamente poco remunerativo- e un innalzamento delle tariffe, perché come dice Caio: “(..) i cittadini sono abituati a pagare meno per consegne lente e di più per consegne veloci; questo è il mercato e noi ci adegueremo”.
In realtà, ciò che il piano industriale di Poste prefigura è la costruzione dell’orizzonte in cui poter finalmente privatizzare Poste Italiane, quotandone in Borsa il 40%; orizzonte che vede la Posta sempre più trasformarsi in una vera e propria banca. Dice ancora Caio: “La nostra sfida è quella di farci carico di portare a ampie fasce del mercato prodotti finanziari un po’ più rischiosi, dando l’opportunità alle famiglie di mettere a budget rendimenti che i titoli tradizionali non danno più”.
E che siano sulla buona strada lo ha recentemente certificato la Consob, che, con il procedimento 20638/14 dell’8 agosto 2014, stigmatizza duramente le pratiche commerciali e distributive adottate da Poste Italiane nel triennio 2011-2013: vendite di prodotti in conflitto di interesse tra BancoPosta e la holding Poste spa che stabilisce budget, tipi e volumi degli strumenti da vendere, “senza preventiva analisi di bisogni e caratteristiche dei clienti”; obiettivi fissati “in funzione delle esigenze delle società prodotto, con una gamma di prodotti strutturalmente esigua, che ha privato l’investitore di alternative”; forme di marketing scorrette, come emerso dal ruolo di finta neutralità di Poste SpA in vari buyback su bond di Barclays e Credit Suisse, rispetto ai quali invece incassava importanti commissioni; strutture commerciali messe sotto pressione, attraverso un “ costante e penetrante controllo delle performance di rete, vari monitoraggi dei risultati e forme di pressione per raggiungere i budget”; ottimistiche profilazioni di clienti che permettevano al 74,5% di essi di sottoscrivere strumenti complessi (come le opzioni certificates su sottostanti cartolarizzati), mentre tutti sanno che almeno tre quarti dei 32 milioni di “clienti” di Poste appartengono alla fascia più “sprovvista” del mondo dei risparmiatori.
Poste Italiane è infine la via di transito per i 250 miliardi di risparmio postale che i cittadini affidano a Cassa Depositi e Prestiti, la quale, privatizzata, da oltre un decennio li utilizza come leva finanziaria per l’avvio delle grandi opere, della dismissione del patrimonio pubblico, della privatizzazione dei servizi pubblici locali.
Cosa deve ancora succedere perché ci si mobiliti per riappropriarci di ciò che ci appartiene e per costruire tutti assieme una nuova finanza pubblica e sociale?
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