November 28, 2024
Ancora una volta i nostri ineffabili media non fanno informazione, cosicché risulta perfettamente inutile ricorrervi per una sia pur minima comprensione degli eventi yemeniti in corso. Basti pensare che si continua a parlare di paese sull’orlo della guerra civile, quando invece essa è in atto da tempo e con esiti territoriali di rilievo, come mostra la cartina in apertura a questo articolo. Inoltre non chiariscono cosa stia accadendo sul terreno e quale efficacia abbiano i bombardamenti sauditi sui “ribelli”; non spiegano quali siano gli interessi politici e strategici dei paesi postisi al fianco dell’Arabia Saudita e come mai questa coalizione (di più che dubbia omogeneità) si sia formata proprio adesso; non chiariscono che costrutto abbia in questo momento l’apertura di un fronte yemenita dispendioso ma soprattutto dispersivo, in ordine allo sforzo che ancora si protrae sul fronte siro-iracheno, né sottolineano il consequenziale dato di fatto che per i governi sunniti (quand’anche alle prese col radicalismo islamico entro i propri confini) il maggior nemico non sia l’Isis.
Improbabili appaiono le cifre fornite riguardo al dispositivo militare dispiegato dai sauditi ai confini yemeniti: 150.000 soldati (quando l’esercito saudita è notoriamente di 75.000 uomini, a cui vanno aggiunti i 100.000 della Guardia Nazionale; e considerato che non risulta esserci stata nessuna mobilitazione di contingenti tratti dai 250.000 riservisti, la conclusione è che sarebbero rimasti a disposizione del governo saudita solo 25.000 uomini attualmente in armi!).
Per non incorrere in confusioni ulteriori risparmiamoci i pregressi avvenimenti dell’intricata storia yemenita, che pure sono concause della situazione odierna. Limitiamoci a due elementi: il caos politico in cui è piombato il paese dopo la caduta del Presidente-dittatore Ali Abd Allah Saleh e la consistente presenza di una minoranza sciita (ramo zaydita) – aggirantesi sul 30-40% della popolazione – che aveva dato luogo a una rivolta armata contro il governo di Sana’a e alla cui guida è Abd al-Maliq al-Huthi, capo del movimento Ansar Allah. La costante avanzata di questi ribelli, detti Huthi, ha fatto fuggire dalla capitale il presidente Mansur Hadi (imposto dagli Usa), rifugiatosi nella sua roccaforte di Aden.
Da siti politicamente scorretti, ma in genere fornitori di notizie di prima mano e più sicure, si apprende che sarebbero stati abbattuti 5 o 6 aerei sauditi e che da scontri sul terreno le truppe di Ryadh sarebbero uscite alquanto malconce, abbandonando agli Huthi una certa quantità di materiale bellico. La cosa non stupisce, essendo noto che per i settori “specialistici” l’esercito saudita si avvale di mercenari arabi stranieri, non fidandosi il governo di mettere armi in mano a elementi che non appartengano a nuclei tribali di sicuro affidamento.
Ci si può azzardare a sostenere che questa guerra intrapresa da Ryadh con innegabile “faccia feroce” sia alquanto fasulla, nel senso di non mettere in conto la vittoria militare, salvo miracolo dall’alto. Obiettivamente l’Arabia Saudita non ha le risorse umane (innanzitutto per scarsità della sua popolazione, sfiducia su di essa a parte), e pure su quelle finanziarie si possono formulare dubbi, almeno in questa fase del mercato petrolifero, considerato che il crollo dei prezzi del petrolio ha causato a questo paese la perdita di 18 miliardi di dollari solo negli ultimissimi mesi. E non è che nell’insieme gli “alleati” di Ryadh stiano molto meglio in termini di forza (a parte le ricchezze dei paesi del Golfo); semmai l’incognita sarebbe un eventuale intervento di terra pakistano (tuttavia, di truppe non arabe in paese arabo).
La tesi della guerra fasulla per altri fini è motivabile. Sono in gioco due fattori: far rialzare il prezzo del petrolio (del resto, aumentato del 6% dall’inizio dei bombardamenti sauditi); inguaiare il grande nemico iraniano, in una fase in cui potrebbe concludere con una certa soddisfazione i negoziati sul proprio nucleare, e contenerne l’espansione come potenza regionale contraria agli interessi delle monarchie arabe sunnite. Che gli Huthi siano aiutati da Teheran è cosa evidentissima, e la loro vittoria totale metterebbe a fortissimo rischio il potere di tali monarchie nella penisola araba: in Bahrain la maggioranza del popolo è sciita, tiranneggiata da una monarchia assoluta sunnita; la stessa Arabia Saudita ha una discriminata e riottosa minoranza sciita, ahimè concentrata proprio nelle zone con maggior presenza di risorse petrolifere; e in più, ma cosa di non minore importanza, se già l’Iran incombe sullo stretto di Ormuz, dallo Yemen si controlla virtualmente lo stretto di Bāb al-Mandab, percorso da petroliere dirette al Mediterraneo che trasportano giornalmente alcuni milioni di barili di greggio.
È iniziato un gioco pericolosissimo per l’intera regione e per tutti. Probabilmente (almeno in questa fase) i dirigenti iraniani manterranno il necessario sangue freddo, non cadendo nella provocazione e non facendosi coinvolgere direttamente nel conflitto; ma il futuro resta in mente Dei. L’aiuto ai ribelli Huthi non cesserà di certo, e al riguardo le previsioni fattibili al momento sono due: 1) essi resistono e magari mettono in difficoltà gli aggressori, magari costringendoli a un tavolo di trattative; 2) non riescono a respingere gli attacchi e, indipendentemente da avalli del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (dove la Russia ha diritto di veto), si forma una forza multilaterale sunnita che interviene sul terreno col solito alibi del peace keeping; a quel punto sarebbe ineludibile per gli Huthi la rinuncia a operare come esercito regolare e conquistare territori, e dovrebbero ricorrere alla guerriglia. In questo caso gli scenari somalo e libico si riprodurrebbero, e non solo per il disfacimento totale dello Yemen, ma anche perché – ci si può scommettere – verrebbero a occupare un posto di rilievo sulla scena (dove peraltro già operano) due fattori ulteriormente destabilizzanti: al-Qaida nella Penisola araba (Aqpa) e il movimento indipendentista di Aden, Harak Janouby, guidato da Ali Salim al-Bayd. L’aggiungersi di nuclei dell’Isis non sarebbe irrealistico.
Anche l’Arabia Saudita rischia molto, perché se la guerra fasulla andasse male potrebbe esplodere la sua estrema instabilità, e dal caos conseguente potrebbero derivare le premesse per la concretizzazione degli esistenti progetti statunitensi di divisione di questo regno in più entità statali (ovviamente deboli).
Fonte: www.utopiarossa.blogspot.com
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