November 27, 2024
Palestina. A 67 anni dall’esilio di 800mila palestinesi dalle proprie terre, la lotta per il ritorno non si ferma. In Galilea un gruppo di rifugiati è tornato nel proprio villaggio, ancora target delle politiche di espulsione israeliane
Quante catastrofi può vivere un popolo? Quella del popolo palestinese, vessato dalla storia, colonizzato per secoli, va avanti: a 67 anni dal 15 maggio 1948 — dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele — è costretto ancora, quotidianamente, a rivivere la propria sofferenza. La chiamano “ongoing Nakba”, la catastrofe che continua dopo quella di 67 anni fa quando 800mila palestinesi (l’80% della popolazione dell’epoca) furono cacciati dalle milizie sioniste dalle proprie terre.
E se fuori dai confini della Palestina storica il popolo della diaspora è ancora in esilio, all’interno le politiche israeliane di trasferimento forzato tentano di separare i palestinesi dalle proprie terre.
O da quello che ne resta. Kufr Bi’rem è uno degli esempi, modello del significato del diritto al ritorno, sancito dalla risoluzione Onu 194/48, e della sua violazione. Lo chiamano il villaggio dei rifugiati ritornati da quando, due anni fa, i profughi sono tornati a vivere tra le case distrutte. Ma permettere il ritorno anche ad un solo rifugiato significherebbe aprire una pericolosa breccia in un muro che appare indistruttibile. Così da due anni, quei profughi ritornati sono target delle autorità israeliane.
«Alla Nakba che continua abbiamo risposto con una lotta che continua», spiega al manifesto Wassim Ghantous, membro di al-Awda (ritorno in arabo), comitato che dagli anni ’80 si occupa di far rivivere Kufr Bi’rem.
Situato nell’estremo nord della Galilea a 3 km dal Libano, godeva di una posizione strategica fondamentale. «All’epoca il movimento sionista aveva fissato delle priorità nell’occupazione delle comunità palestinesi – continua Ghantous – Prima presero di mira le città, sedi delle zone industriali, del commercio, dei centri culturali; poi, i villaggi agricoli perché possedevano molta terra ma pochi abitanti. Come Kufr Bi’rem, 12mila dunam di terre e 1.040 residenti».
Per cacciarli, a differenza di altri villaggi teatro di barbari massacri o di deportazione fisica (intere famiglie caricate su camion, barche o trattori), a Kufr Bi’rem le milizie sioniste usarono l’inganno. Il 29 ottobre ’48, sei mesi dopo la nascita di Israele, le neonate autorità chiesero ai residenti di allontanarsi per due settimane per ragioni di sicurezza, vista la vicinanza al confine libanese.
I mille abitanti si fidarono e lasciarono la comunità senza portare con sé nulla, convinti di tornare a breve. Non accadde mai. «Subito i rifugiati attivarono e l’anno dopo la Nakba presentarono alla Corte Suprema israeliana una petizione che chiedeva l’autorizzazione a tornare nel villaggio. Nel 1951 la Corte rispose con una decisione a metà: imponeva il ritorno dei rifugiati in quanto non esistevano più ragioni che ne giustificassero l’allontanamento, ma allo stesso tempo lasciava l’ultima parola all’esercito».
Il timore che quei rifugiati tornassero era comunque forte. La distruzione totale del villaggio arrivò dal cielo, nel ’53. Dalla collina accanto i suoi abitanti assistettero impotenti e in lacrime ai raid che ridussero in macerie le case.
«Oggi i discendenti dei 1.040 residenti del 1948 hanno raggiunto le 6mila unità: la metà vive ancora in Palestina. L’altra metà in Libano». Chi è riuscito a rimanere non ha smesso di lottare: dagli anni ’50 i rifugiati di Kufr Bi’rem hanno scioperato, si sono fatti arrestare, hanno seguito le vie legali, hanno organizzato campi estivi per i propri figli tra le rovine del villaggio. Un’idea lanciata trent’anni fa che, nel 2013, si è trasformata in ben altro: due estati fa, dopo la fine del tradizionale campo estivo, il comitato ha deciso di rimanere.
La scuola e la chiesa, unici edifici rimasti in piedi, sono stati rinnovati. I rifugiati si sono divisi in comitati, ognuno responsabile di compiti diversi: cucinare, organizzare festival, ripulire dalle erbacce i resti delle case. E mantenere una presenza fissa: ogni notte e ogni giorno 100 persone si sono date il cambio per evitare l’espulsione. Che è arrivata sotto forma di raid militare l’11 agosto 2014, nonostante la petizione del villaggio presentata al tribunale di Nazareth fosse ancora pendente: funzionari dell’Israeli Land Authority si sono presentati a Kufr Bi’rem, hanno confiscato utensili della cucina, materassi, allacci a elettricità e acqua e distrutto le stanze costruite intorno alla chiesa.
Il terzo raid in due anni. Ma Kufr Bi’rem resiste: il comitato al Awda si sta riorganizzando per tornare nel villaggio. E sfidare ancora le politiche israeliane.
Chiara Cruciati
KUFR BI’REM
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