Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

Mohamed è morto per i nostri pomodori – Moni Ovadia: La nuova dichiarazione universale

Postato il 25 Luglio 2015 | in Italia, Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

Mohamed è morto per i nostri pomodori

immigrati-raccolta-pomodoriBraccianti. Nardò, l’immigrato sudanese lavorava in nero: 3,5 euro per ogni cassone di 3 quintali. Il caldo a 42 gradi, la fatica, la pressione dei caporali. Flai Cgil: l’azienda è già sotto processo per tratta di uomini

Moha­med si è acca­sciato men­tre rac­co­glieva i pomo­dori. Il caldo ecces­sivo, il sole forte, pro­ba­bil­mente la stan­chezza, lo hanno stron­cato: è suc­cesso l’altroieri, alle due del pome­rig­gio, in un campo di Nardò, in pro­vin­cia di Lecce. Il brac­ciante, un immi­grato suda­nese di 47 anni, non aveva un con­tratto, ma era in pos­sesso della carta di sog­giorno in quanto richie­dente asilo. L’azienda per cui lavo­rava è attual­mente sotto pro­cesso per un caso di cui si è molto par­lato a Lecce, un’organizzazione cri­mi­nale sgo­mi­nata nel 2011 gra­zie all’operazione di poli­zia Sabr (dal nome di uno dei capo­rali): le accuse, per sedici impu­tati, impren­di­tori e capo­rali ancora in attesa di una sen­tenza di prima grado, vanno dall’associazione per delin­quere alla ridu­zione o man­te­ni­mento in schia­vitù o in ser­vitù, all’intermediazione ille­cita e sfrut­ta­mento del lavoro, estor­sione e falso, e com­pren­dono anche la tratta di persone.

Dodici ore sotto il sole

Ieri, per la morte di Moha­med, sono finiti sul regi­stro degli inda­gati il tito­lare dell’azienda agri­cola per cui lavo­rava, la moglie di quest’ultimo e il capo­rale che lo aveva por­tato nel campo. Moha­med, rac­con­tano Anto­nio Gagliardi e Yvan Sagnet, sin­da­ca­li­sti della Flai Cgil, era arri­vato da pochi giorni a Nardò: come tan­tis­simi altri brac­cianti usava spo­starsi nei diversi ter­ri­tori di rac­colta, in tutto il Sud, a seconda delle sta­gioni. La moglie e la figlia pic­cola si tro­va­vano infatti a Cata­nia, e appena appresa la noti­zia sono par­tite imme­dia­ta­mente per rag­giun­gere il cen­tro pugliese.

«Moha­med lavo­rava per 3,50 euro a cas­sone — spiega Sagnet, sin­da­ca­li­sta della Flai — Cia­scun cas­sone pesa 3 quin­tali, e più ne riempi, più vieni pagato. La gior­nata di lavoro ini­zia alle 5 del mat­tino e fini­sce tra le 17 e le 18: si pas­sano 12 ore sotto il sole, a fati­care come bestie. Moha­med pro­ba­bil­mente non era abi­tuato, era la prima volta che rac­co­glieva pomo­dori, e i 42 gradi, la pres­sione psi­co­lo­gica, sono stati fatali. Non si cono­sce ancora il motivo esatto della morte, le auto­rità hanno dispo­sto un’autopsia».

Erano irre­go­lari anche i due lavo­ra­tori che si tro­va­vano vicino all’uomo e che hanno lan­ciato l’allarme, come non erano a norma dal punto di vista della sicu­rezza altri 28 brac­cianti regi­strati dalla poli­zia in quel momento nel campo. «L’autoambulanza, chia­mata dagli altri lavo­ra­tori, è arri­vata dopo due ore — dice Sagnet — ma ormai era troppo tardi e Moha­med era già morto».

La sto­ria, dram­ma­tica già in sé, diventa ancora più signi­fi­ca­tiva se si guarda il con­te­sto in cui è avve­nuta: innan­zi­tutto, come detto, l’azienda coin­volta era già sotto pro­cesso. E in quello stesso pro­cesso, avviato nel gen­naio 2013 dopo due anni di inda­gini su una tratta di clan­de­stini dall’Africa all’Italia, si sono costi­tuite come parti civili anche la Flai e la Cgil. Ma evi­den­te­mente le cause legali, le impu­ta­zioni penali, non bastano a fer­mare certi impren­di­tori “spre­giu­di­cati”. Stesso discorso per i capo­rali, spesso immi­grati anche loro: gli impu­tati per il caso Sabr, spie­gano alla Flai Cgil, sono ad esem­pio tuni­sini, alge­rini, sudanesi.

Ma non basta, per­ché nel 2011 c’era stata un’altra vit­tima tra i brac­cianti di Nardò: «Un ragazzo era morto in una baracca e non nel campo — rac­conta Sagnet — Non abbiamo mai capito per quale motivo, ma deve aver con­tri­buito la durezza del lavoro». Pro­prio nel 2011 è scop­piata una rivolta a Nardò, con uno scio­pero dei migranti durato 13 giorni, e che poi ha acceso i riflet­tori sul ter­ri­to­rio e ha con­tri­buito alla riu­scita dell’operazione Sabr, quella che ha por­tato sotto pro­cesso i pre­sunti traf­fi­canti di uomini.

Sagnet, came­ru­nense, era uno di quei brac­cianti ribelli, e da allora è cre­sciuto fino a diven­tare sin­da­ca­li­sta della Flai Cgil. «Se non è andata come a Rosarno — aggiunge il suo col­lega Anto­nio Gagliardi — è stato gra­zie al fatto che il sin­da­cato ha saputo inca­na­lare quelle lotte, e al suc­ces­sivo inter­vento delle auto­rità. Poi abbiamo deciso di costi­tuirci parte civile».

Il col­lo­ca­mento non funziona

«Ma tante cose ancora non fun­zio­nano — con­clude Gagliardi — Ad esem­pio le liste di col­lo­ca­mento pub­bli­che che noi del sin­da­cato abbiamo for­te­mente voluto: ci sono e sono uno stru­mento impor­tante, ma non è obbli­ga­to­rio per le imprese pescare i lavo­ra­tori solo da lì, e quindi riten­gono più comodo ed eco­no­mico uti­liz­zare ancora oggi i caporali».

«La morte di Moha­med non può restare un fatto di cro­naca estiva, è un atto di accusa verso un mer­cato del lavoro agri­colo col­pito dalla piaga dello sfrut­ta­mento — dice Ste­fa­nia Crogi, segre­ta­ria gene­rale della Flai Cgil — È una situa­zione che denun­ciamo e con­tra­stiamo da anni, incon­trando enormi dif­fi­coltà anche da parte di chi — poli­tica e isti­tu­zioni — dovrebbe dare rispo­ste forti e imme­diate. Moha­med è morto per­ché non poteva alzare la testa per chie­dere aiuto, non poteva far valere i suoi diritti».

Antonio Sciotto

(tratto da Il Manifesto del 22 luglio 2015)

La nuova dichiarazione universale

Immigrazione. Oggi il vero spartiacque fra chi crede nella piena dignità e integrità dell’essere umano e chi non lo crede risiede nelle contrapposte concezioni dell’emigrazione

Gli scorsi giorni hanno visto in Ita­lia l’asfittico ripe­tersi del ciclo mono­tono «emer­genza migranti», guerra fra poveri, stru­men­ta­liz­za­zioni delle destre, nella fat­ti­spe­cie, Lega, Casa Pound, Fra­telli d’Italia.
Il ciclo ricalca uno schema che ha già dato ampie prove di sé nel corso di tutto il Novecento.

Que­sto schema si nutre sem­pre dello stesso veleno: nega­ti­viz­za­zione e cri­mi­na­liz­za­zione dell’altro in quanto tale.

Que­sto risul­tato si ottiene attra­verso mec­ca­ni­smi reto­rici di fal­si­fi­ca­zione, di gene­ra­liz­za­zione, attra­verso la dila­ta­zione e la mani­po­la­zione stru­men­tale di dati sta­ti­stici, attra­verso la pro­pa­ga­zione di allarmi sociali, l’evocazione di paure irra­zio­nali e la con­trap­po­si­zione ance­strale fra il noi e il loro come anta­go­ni­smo fra il legit­timo e l’illegittimo, fra la tito­la­rità e la clan­de­sti­nità. Da que­sto schema è espunto lo sta­tuto uni­ver­sale di dignità dell’essere umano. La poli­tica sta all’interno di que­sto cir­cuito per­verso o per soprav­vi­vere alla pros­sima cosid­detta emer­genza o per paras­si­tare qual­che van­tag­gio elet­to­rale con la pre­tesa di ergersi a pala­dina degli autoc­toni asse­diati dagli invasori.

Coloro che per ori­gine ideale dovreb­bero opporsi allo squal­lido tran­tran della poli­ti­chetta come mestiere non hanno nes­suna auto­re­vo­lezza o cre­di­bi­lità per farlo, non sanno ergersi oltre lo sta­tus quo, oltre la rou­tine media­tica. Alzare lo sguardo signi­fica ricor­dare che solo quarant’anni fa, nelle terre del nord, gli «altri» erano i nostri cit­ta­dini meri­dio­nali, i ter­roni, ricor­dare che nel corso di cento anni (1870–1970) gli «altri» sono stati gli ita­liani, 30 milioni di emi­granti (molti clan­de­stini) nelle Ame­ri­che, in Europa e in Australia.

È neces­sa­rio ricor­dare che cit­ta­dini autoc­toni simili in tutto e per tutto a quelli che oggi nel Veneto e alle porte di Roma non vogliono nel loro quar­tiere un pugno di migranti afri­cani, allora, con la stessa atti­tu­dine intol­le­rante, non vole­vano gli ita­liani, li descri­ve­vano come peri­co­losi, spor­chi, vio­lenti, criminali.

Chi oggi vuole respin­gere i migranti è por­ta­tore della stessa pato­lo­gica men­ta­lità di chi allora calun­niava, insul­tava e voleva ricac­ciare in mare i nostri con­cit­ta­dini che non sfug­gi­vano alle guerre ma alla fame ende­mica, alla dispe­ra­zione sociale, alla man­canza di futuro.

Nell’alluvione di reto­rica e fal­sità che accom­pa­gnano il pen­siero rea­zio­na­rio sulla «que­stione migranti» emerge come apo­teosi del rag­giro lo slo­gan fru­sto e truf­fal­dino: «Aiu­tia­moli a casa loro». Ma certo! Aiu­tia­moli a casa loro. Allora c’è un solo modo per farlo: espel­lere dall’Africa ogni inte­resse colonialista.

Il colo­nia­li­smo è stato, al di là di ogni pos­si­bile dub­bio, il più vasto e per­du­rante cri­mine della sto­ria dell’umanità. Il primo e più effe­rato cri­mi­nale anche se non il solo è stato l’Occidente e, per nulla pen­tito per­si­ste. Il cri­mine è per­du­rante e pro­se­gue nel nostro tempo con le guerre «uma­ni­ta­rie» o pre­ven­tive, con l’azione delle mul­ti­na­zio­nali, con la sot­tra­zione delle risorse più pre­ziose ai legit­timi tito­lari, impe­di­sce la sovra­nità ali­men­tare, idrica, arraffa terre ed è in com­butta con i gover­nanti più cor­rotti e tiran­nici. Vediamo que­sti poli­ti­ca­stri da quat­tro soldi se sono capaci di aiu­tarli a casa loro. Vediamo sotto i nostri occhi come sono capaci di con­tra­stare la schia­viz­za­zione dei lavo­ra­tori stra­nieri nei nostri campi di pomo­dori e nei nostri frut­teti. Ma fra le deva­sta­zioni più imper­do­na­bili con le quali la men­ta­lità colo­nia­li­sta ha inqui­nato il rap­porto fra uomini di cul­ture diverse c’è la con­ce­zione dell’altro visto come minore, sot­to­met­ti­bile, diseguale.

Prima l’ideologia colo­nia­li­sta si è auto asse­gnata il com­pito di civi­liz­za­zione di altre cul­ture defi­nite uni­la­te­ral­mente come inci­vili, oggi che le con­se­guenze dell’infestazione colo­niale por­tano grandi flussi migra­tori verso l’Europa, l’altro diventa inde­si­de­ra­bile, minac­cioso, da respin­gere. Ovvia­mente colui che mag­gior­mente viene ostra­ciz­zato è il più povero, il più dispe­rato, men­tre, per con­fon­dere le acque, ci si mostra dispo­ni­bili ad acco­gliere colui che è prov­vi­sto di attri­buti accet­ta­bili. Il raz­zi­sta e lo xeno­fobo odierni non vogliono essere defi­niti come tali, fin­gono di risen­tirsi con­tro chi li apo­strofa con l’epiteto che danno mostra di rite­nere insultante.

Ma oggi il vero spar­tiac­que fra chi, diciamo, crede nella piena dignità ed inte­grità dell’essere umano e chi con varie­gate moti­va­zioni, non lo crede risiede nelle con­trap­po­ste con­ce­zioni dell’emigrazione. Per chi acco­glie in sé la dignità dell’altro come bene supremo, l’emigrazione è pro­getto di tra­sfor­ma­zione per la costru­zione di una società di giu­sti­zia e soli­da­rietà. Per coloro che non per­ce­pi­scono in sé l’accoglienza dell’altro come oriz­zonte verso cui met­tersi in cam­mino l’emigrazione è pro­blema, emer­genza, tur­ba­tiva, invasione.

Chi, indi­vi­duo, asso­cia­zione, par­tito o movi­mento sostiene la piena dignità dell’altro e prende sul serio la «Dichia­ra­zione uni­ver­sale dei diritti dell’uomo» ha il dovere di radi­ca­liz­zare la pro­pria pero­ra­zione chie­dendo subito, come da tempo sug­ge­ri­sce il sin­daco di Palermo Leo­luca Orlando, l’abolizione uni­ver­sale del per­messo di sog­giorno. Il cam­mino sarà certo lungo ma è tempo di ini­ziarlo con decisione.

Moni Ovadia

(tratto da Il Manifesto del 22 luglio 2015)

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