November 27, 2024
Con sentenza depositata il 28.3.12 la Corte d’appello di Genova rigettava il gravame della C.L.S.C.C. contro la pronuncia con cui l’8.10.10 il Tribunale della Spezia aveva dichiarato illegittimi perché sproporzionati i licenziamenti disciplinari intimati da detta Coop. a G.C., D.D.F., M.F., S.L. e M.Z., con conseguente ordine di reintegra nel posto di lavoro di detti dipendenti e con le conseguenze economiche ex art. 18 Stat.
Gli addebiti riguardavano l’appropriazione di beni aziendali, ossia di alcuni prodotti alimentari del supermercato gestito dalla suddetta Coop., che i lavoratori avevano consumato su luogo di lavoro.
Per la cassazione della sentenza ricorre C.L.S.C.C. affidandosi a quattro motivi.
G.C., D.D.F., M.F., S.L. e M.Z. resistono con controricorso.
Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
1 – Con il primo motivo il ricorso lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e vizio di motivazione nella parte in cui la gravata pronuncia ha ritenuto che i fatti non siano tali da giustificare la massima sanzione espulsiva (il licenziamento senza preavviso) considerata la tenuità del valore dei generi alimentari consumati e la scarsa consapevolezza dei lavoratori di commettere un illecito: obietta la ricorrente che tutti i lavoratori erano stati condannati in sede penale per i medesimi fatti e che lo stesso contegno da loro tenuto dimostra la consapevolezza della gravità dell’appropriazione; sotto il profilo oggettivo, cioè quello relativo alla ritenuta tenuità del danno, la Corte territoriale non ha considerato che l’impossessamento di beni aziendali dà luogo, secondo le statistiche prodotte nel corso del giudizio, a danni ingenti, fenomeno assai diffuso all’interno del supermercato della cooperativa ricorrente, al punto da essere stato più volte segnalato dall’addetto alla sorveglianza V.
Analoghe censure vengono, in sostanza, fatte valere con il secondo motivo sotto forma di violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e di vizio di motivazione sull’elemento intenzionale delle infrazioni, atteso che la stessa sentenza impugnata da un lato ha svalutato l’elemento soggettivo delle condotte considerata la disinvoltura, se non l’abitualità, delle appropriazioni, dall’altro non ha considerato che proprio tale disinvoltura nel consumare prodotti alimentari dimostra, invece, la gravità delle condotte medesime.
Con il terzo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. e degli artt. 161 e 179 CCNL per i dipendenti da imprese della distribuzione cooperativa, disposizioni contrattuali che prevedono il licenziamento per giusta causa in caso di appropriazione sul luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi.
Con il quarto motivo il ricorso si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 5 legge n. 604/66, 115 e 116 c.p.c., nonché di vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale trascurato che dall’istruttoria testimoniale è emerso, a riprova della consapevolezza dell’illiceità delle condotte da parte dei lavoratori, che essi hanno occultato la merce sottratta e adottato particolari cautele per non essere scoperti; a tal fine il ricorso richiama varie risultanze processuali.
2 – I primi tre motivi di ricorso – da esaminarsi congiuntamente perché connessi – non possono essere accolti.
Si premetta che il perimetro del giudizio di questa Corte Suprema in tema di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento è dato dall’interpretazione delle norme cd. elastiche, ossia a variabile contenuto assiologico, che richiedono all’interprete giudizi di valore su regole o criteri etici o di costume o proprie di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici.
Gli esempi, nell’ordinamento, sono innumerevoli: oltre ai concetti di giusta causa o di giustificato motivo si pensi a quelli di buona fede nelle trattative, interesse del minore, concorrenza sleale, vincolo pertinenziale, carattere creativo dell’opera dell’ingegno, importanza dell’inadempimento, danno ingiusto, stato di bisogno etc.
Ora, nulla quaestio circa l’astratta riconducibilità dell’appropriazione di beni aziendali al concetto di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento di cui agli artt. 2119 c.c. e 1 e 3 legge n. 604/66 e di cui alla contrattazione collettiva applicata ai rapporti di lavoro in discorso.
Ma, proprio perché quella di giusta causa o giustificato motivo è una nozione legale, la previsione della contrattazione collettiva non vincola il giudice di merito.
Egli – anzi – ha il dovere, in primo luogo, di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive disciplinari al disposto dell’art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ex art. 2106 c.c., solo ad eventuali sanzioni conservative (il giudice non può – invece – fare l’inverso, cioè estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti: cfr. Cass. 22.2.13 n. 4546; Cass. 17.6.11 n. 13353; Cass. 29.9.95 n. 19053; Cass. 15.2.96 n. 1173).
Solo dopo che tale verifica consenta di escludere la nullità delle clausole del contratto collettivo in tema di comportamenti passibili di licenziamento e comunque faccia ritenere che l’infrazione disciplinare sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso, il giudice deve poi apprezzare in concreto (e non in astratto) la gravità degli addebiti, essendo pur sempre necessario che essi rivestano il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto all’adempimento dei futuri obblighi lavorativi (cfr., ex aliis, Cass. n. 2013/12; Cass. n. 2906/05; Cass. n. 16260/04; Cass. n. 5633/01).
In altre parole, vertendosi in materia disciplinare, va sempre in concreto esaminata la gravità dell’infrazione sotto il profilo oggettivo e soggettivo e sotto quello della futura affidabilità del dipendente a rendere la prestazione dedotta in contratto.
Si tratta di valutazioni in punto di fatto (in quanto tali insindacabili in sede di legittimità: cfr., ex aliis, Cass. n. 7948/11) che i giudici d’appello hanno eseguito con motivazione immune da vizi logico-giuridici, giungendo alla conclusione (condivisa da tutti i giudici di merito che nella precedente fase cautelare e nel primo grado hanno conosciuto della presente controversia) che le infrazioni addebitate agli odierni controricorrenti non siano di gravità tale, riguardo sia all’elemento oggettivo che a quello soggettivo, da minare in modo irrimediabile il rapporto fiduciario tra le parti.
In proposito la gravata pronuncia ha accertato la particolare tenuità del danno, trattandosi di beni di scarso valore commerciale (secondo quel che si legge in sentenza, un succo di frutta, quattro merendine, una bevanda in bottiglia, due spremute di frutta e una vaschetta di gelato, il tutto ripartito fra i cinque lavoratori) e consumati sullo stesso luogo di lavoro senza ricorrere a loro occultamento o ad altre precauzioni sintomatiche della consapevolezza dell’illiceità della condotta.
Né nella motivazione della gravata pronuncia si ravvisa la contraddizione denunciata in ricorso, che risiederebbe nell’avere la Corte territoriale da un lato svalutato l’elemento soggettivo delle condotte considerata la disinvoltura delle appropriazioni, dall’altro omesso di considerare che proprio tale disinvoltura nel consumare prodotti alimentari dimostrerebbe, invece, la gravità delle condotte medesime: si tratta, infatti, solo di un diverso profilo sotto il quale le condotte possono esaminarsi e che può teoricamente essere sintomatico tanto dell’ingenuità di chi ritenga di non fare nulla di male nel consumare una merendina, quanto di un abituale atteggiamento di noncuranza verso la conservazione dei beni aziendali.
Ma, giova ribadire, questo è il più classico degli apprezzamenti di merito, che risente delle particolari connotazioni circostanziali e personali della vicenda sottoposta all’esame dell’autorità giudiziaria.
Obietta la società ricorrente che per tali fatti i controricorrenti sono stati condannati in sede penale: ma il giudicato penale concerne solo l’accertamento dei fatti materiali che costituiscono l’area comune dei due processi (quello civile e quello penale), senza vincolare l’autonomo apprezzamento del giudice del lavoro in termini di configurabilità della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, non potendosi automaticamente far discendere la sanzione di natura privatistica da quella penalistica, trattandosi di illeciti e relative sanzioni che hanno finalità e presupposti diversi.
Sostiene, ancora, la ricorrente che l’impossessamento di beni aziendali determina, secondo le statistiche prodotte nel corso del giudizio, a danni ingenti per il supermercato: ma si tratta, da un lato, d’un accertamento di merito precluso a questa Corte e, dall’altro, di un dato statistico che, sebbene idoneo ad inquadrare il fenomeno nelle sue linee generali, nulla dice circa le singole personali responsabilità dei controricorrenti, che ovviamente non possono essere chiamati a rispondere di impossessamenti dovuti a terzi (altri loro colleghi o clienti del supermercato).
Da ultimo, non giova alla ricorrente il richiamo – che si legge nella sua memoria ex art. 378 c.p.c. – a Cass. n. 6219/14, perché anche in tale sentenza questa Corte Suprema ha ribadito il principio che la valutazione sulla proporzionalità dell’addebito rispetto alla sanzione irrogata è riservata al giudice di merito, valutazione in quella occasione svolta senza vizi motivazionali.
Dunque, è ben possibile che la maggiore o minore gravità di infrazioni astrattamente analoghe vengano, legittimamente, giudicate in modo diverso dai giudici di merito, trattandosi – in realtà – di apprezzamenti non comparabili fra loro perché devono essere calati in irripetibili contesti lavorativi e personali.
3 – Neppure il quarto motivo di ricorso può essere accolto, in quanto sostanzialmente inteso a sollecitare una generale rivisitazione del materiale probatorio mediante accesso diretto agli atti per verificare l’esattezza della gravata pronuncia, operazione non consentita in sede di legittimità.
4 – In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
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