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Missile contro il gasdotto

Postato il 2 Dicembre 2015 | in Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

Missile contro il gasdotto

di Manlio Dinucci

A US Air Force F-16 Fighting Falcon flies with a German MiG 29, NATO code-named Fulcrum, off the coast of Sardinia during a joint training exercise. Exact Date Shot Unknown

A US Air Force F-16 Fighting Falcon flies with a German MiG 29, NATO code-named Fulcrum, off the coast of Sardinia during a joint training exercise.
Exact Date Shot Unknown

Il missile Aim-120 Amraam lanciato dall’F-16 turco (ambedue made in Usa) non era diretto solo al caccia russo impegnato in Siria contro l’Isis, ma a un obiettivo ben più importante: il Turkish Stream, il progettato gasdotto che porterebbe il gas russo in Turchia e, da qui, in Grecia e altri paesi della Ue.

Il Turkish Stream è la risposta di Mosca al siluramento, da parte di Washington, del South Stream, il gasdotto che, aggirando l’Ucraina, avrebbe portato il gas russo fino a Tarvisio (Udine) e da qui nella Ue, con grandi benefici per l’Italia anche in termini di occupazione. Il progetto, varato dalla russa Gazprom e dall’italiana Eni e poi allargato alla tedesca Wintershall e alla francese Edf, era già in fase avanzata di realizzazione (la Saipem dell’Eni aveva già un contratto da 2 miliardi di euro per la costruzione del gasdotto attraverso il Mar Nero) quando, dopo aver provocato la crisi ucraina, Washington lanciava quella che il New York Times definiva «una strategia aggressiva mirante a ridurre le forniture russe di gas all’Europa». Sotto pressione Usa, la Bulgaria bloccava nel dicembre 2014 i lavori del South Stream affossando il progetto.

Contemporaneamente però, nonostante Mosca e Ankara fossero in campi opposti riguardo a Siria e Isis, la Gazprom firmava un accordo preliminare con la compagnia turca Botas per la realizzazione di un duplice gasdotto Russia-Turchia attraverso il Mar Nero.

Il 19 giugno Mosca e Atene firmavano un accordo preliminare sull’estensione del Turkish Stream (con una spesa di 2 miliardi di dollari a carico della Russia) fino alla Grecia, per farne la porta d’ingresso del nuovo gasdotto nell’Unione europea.

Il 22 luglio Obama telefonava a Erdogan, chiedendo che la Turchia si ritirasse dal progetto.

Il 16 novembre Mosca e Ankara annunciavano, invece, prossimi colloqui governativi per varare il Turkish Stream, con una portata superiore a quella del maggiore gasdotto attraverso l’Ucraina.

Otto giorni dopo, il 24 novembre, l’abbattimento del caccia russo provocava il blocco, se non la cancellazione, del progetto. Sicuramente a Washington hanno brindato al nuovo successo. La Turchia, che importa dalla Russia il 55% del gas e il 30% del petrolio, viene invece danneggiata dalle sanzioni russe e rischia di perdere il grosso business del Turkish Stream.

Chi allora in Turchia aveva interesse ad abbattere volutamente il caccia russo, sapendo quali sarebbero state le conseguenze? La frase di Erdogan «Vorremmo che non fosse successo, ma è successo, spero che una cosa del genere non accada più» implica uno scenario più complesso di quello ufficiale. In Turchia ci sono importanti comandi, basi e radar Nato sotto comando Usa: l’ordine di abbattere il caccia russo è stato dato all’interno di tale quadro.

Qual è a questo punto la situazione nella «guerra dei gasdotti»? Usa e Nato controllano il territorio ucraino da cui passano i gasdotti Russia-Ue, ma la Russia può fare oggi meno affidamento su di essi (la quantità di gas che trasportano è calata dal 90% al 40% dell’export russo di gas verso l’Europa) grazie a due corridoi alternativi.

Il Nord Stream che, a nord dell’Ucraina, porta il gas russo in Germania: la Gazprom ora lo vuole raddoppiare ma il progetto è avversato nella Ue dalla Polonia e altri governi dell’Est (legati più a Washington che a Bruxelles). Il Blue Stream, gestito alla pari da Gazprom ed Eni, che a sud passa dalla Turchia ed è per questo a rischio.

La Ue potrebbe importare molto gas a basso prezzo dall’Iran, con un gasdotto già progettato attraverso Iraq e Siria, ma il progetto è bloccato (non a caso) dalla guerra scatenata in questi paesi dalla strategia Usa/Nato.

(tratto da Il Manifesto, 1 dicembre 2015)

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