December 25, 2024
Questo articolo è un’ammissione di colpa. Non solo abbiamo sbagliato l’analisi del voto dei giovani nel referendum sul Brexit, ma l’abbiamo sbagliata due volte, e colpevolmente.
Fin dalle primissime ore del giorno 1-dopo-Brexit (venerdì), nelle trasmissioni/maratona che hanno provato a seguire dati inaffidabili (e dichiaratamente tali: né proiezioni né exit polls ma semplici opinion polls che hanno puntualmente sbagliato le previsioni) qualcuno aveva provato a tirar fuori dal cilindro le canoniche analisi standard, quella sorta di massime che ti permettono di dire comunque qualcosa quando non hai capito che cosa sta succedendo. Sicché, mentre il Leave si avviava chiaramente alla vittoria, emergeva la tradizionale lettura delle giovani generazioni disaffezionate al sogno europeo e sensibili ai populismi: non c’era ancora nessun dato sui flussi elettorali, ma la frattura generazionale funziona sempre. Così bene che è valida anche all’opposto, a quanto pare.
E infatti a metà mattinata si diffonde un sondaggio di YouGov (lo trovate qui), realizzato il giorno stesso del referendum su un campione di 4772 elettori, da cui emerge un dato molto netto sul divario nelle tendenze di voto: il 75% delle persone tra i 18 e 24 anni avrebbe votato Remain, ed estendendo la ricerca alle altre fasce d’età risulta una maggioranza di preferenze pro-UE solo al di sotto dei 50 anni, anche se molto più risicata (il 56% degli elettori). Non è un risultato isolato: la percentuale è pressoché confermata dalla BBC, che sulla base delle rilevazioni di un altro istituto demoscopico (Lord Ashcroft Polls) da il Remain al 73% tra gli under 25 (vedi qui).
Da quel momento in poi, si impone nei media e nell’opinione pubblica un’analisi ufficiale del voto che ripropone il “generation gap”, ma al rovescio: il Guardian inizia a parlare di “generazione 75%”, il Telegraph racconta la “furia dei millennials contro i baby boomers”, l’Huffington Post spopola con un articolo sui “giovani fregati dai vecchi” e alla fine anche Politico sancisce che “i giovani britannici hanno votato Remain”: si parli di questo adesso.
E se ne parla eccome, online e offline, sui social e sui giornali. Finché sabato (giorno 2-dopo-Brexit) Sky Data diffonde le percentuali dell’affluenza per fasce d’età: da cui risulta che solo il 36% degli under 25 ha votato. Dato che sale per gli under 35 (58%) ma rimane ampiamente al di sotto dell’affluenza media (72%) e lontanissimo da quel +80% di affluenza fatto registrare dagli over 55. E la lettura deve cambiare ancora: ma come?
Sarebbe un errore attribuire ai più giovani, sulla sola base della loro bassissima partecipazione, sentimenti anti-europeisti. Del resto l’unico indicatore disponibile, dato da quei pochi che hanno votato, ci dice il contrario. E però nella nostra corsa a smentire l’immagine dei ragazzi disaffezionati e populisti abbiamo contribuito a nascondere le uniche due chiavi di lettura certe. Primo: l’aggettivo che descrive meglio il sentimento dei giovani elettori non è l’anti-europeismo ma il disinteresse di una maggioranza di disillusi contro il progressismo di un minoranza di coetanei acculturati. Secondo, ancora più grave: la versione ufficiale del “generation gap”, del conflitto padri-figli, è servita come diversivo per coprire la vera frattura nell’elettorato, che corre su assi diversi: luogo di residenza, livello di istruzione, reddito medio. E questa volta non è una conclusione per astrazioni: i dati sul voto forniti dal Financial Times confermano tutte e tre le linee di divisione. Lo scontro Brexit si è mosso sulla spaccatura tra cittadini e provinciali, istruiti e impreparati, vincitori e perdenti nella globalizzazione. Piuttosto che disperarci perché sono stati sconfitti i giovani che possono viaggiare nel fine settimana per visitare tre capitali e tornare a casa la domenica a mangiare fish and chips, oltre a dovercela prendere con quelli di loro (troppi) che non sono andati a votare, dovremmo iniziare a riflettere su un modello economico europeo che permette solo a una risicatissima parte di quei giovani di andare dove gli pare e quando vogliono. Un modello che ha alimentato quel risentimento che emerge in maniera sempre più evidente tra i fattori decisivi del Leave.
26 giugno 2016
Alessandro Mario Amoroso
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