Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

Ribolla: una strage prevedibile

Postato il 30 Luglio 2019 | in Italia, Scenari Politico-Sociali, Sicurezza sul lavoro | da

Da: Circolo Alternativa di Classe via Fiume, 189 La Spezia

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Il 4 Maggio del 1954, esattamente 65 anni fa, avvenne la più grande tragedia mineraria italiana del dopoguerra. L’esplosione, avvenuta alle ore 8,40 nel Pozzo Camorra, 260 metri sotto il livello del mare, nella miniera della piccola cittadina di Ribolla in provincia di Grosseto, causò la morte di 43 minatori. Un episodio poco noto e quasi dimenticato, una tragedia cancellata. Abbiamo avuto un’altra Marcinelle in Italia, due anni prima di quella belga, ma nessuno lo ricorda più. Il Pozzo “Camorra”, teatro dell’esplosione, faceva parte di un complesso di miniere di lignite di proprietà della Montecatini, che in Maremma deteneva il monopolio dell’industria estrattiva. 

Il piccolo paese di Ribolla non era altro che un villaggio costruito appositamente dalla società mineraria a fine Ottocento per alloggiare i lavoratori con le proprie famiglie, che, in tutto il comprensorio, nel 1954 impiegava fino a 1250 dipendenti. La Montecatini ne aveva finanziato la crescita, costruendo le casette sparse, l’asilo, la chiesa, il campo sportivo e anche, trattenendo ai dipendenti una giornata lavorativa, il teatro, dove un giorno sarebbero state allineate le bare. “Eravamo un paese multietnico, – racconta un anziano – c’erano marchigiani, sardi, calabresi e siciliani…”. Questa la percezione del diverso, nell’Italia del Dopoguerra.

La miniera di carbone di Ribolla è stata una delle poche miniere di carbone italiane. Era assai produttiva, tanto da arrivare ad un picco di 270mila tonnellate annue nel corso della Seconda Guerra Mondiale, grazie allo sfruttamento di minatori mal pagati. Come detto, era una miniera di lignite, cioè di carbone povero: uno dei materiali più pericolosi nell’estrazione, per la facilità nella emissione del grisù, una miscela di gas composta in prevalenza da metano che, quando si mescola all’aria, diventa molto infiammabile ed esplosivo, e, quando raggiunge la percentuale del 9%, basta una scintilla prodotta da un piccone per scatenare un’esplosione devastante. Questo pericoloso gas, totalmente inodore, è prodotto in tutte le miniere di carbone, ma in quella di Ribolla la sua emissione era, già allora, notoriamente molto alta.

La Montecatini, proprietaria della miniera, aveva sempre fatto ben poco per migliorare la ventilazione delle gallerie della miniera, che peraltro era l’unica maniera per dissipare all’esterno il gas che continuamente si accumulava. Il profitto andava bene, ma male le spese per la sicurezza, e quindi i minatori erano costantemente esposti al rischio di esplosione. Se ne erano già verificate in passato, nel 1925, nel 1935, e nel 1945, con vittime, anche se meno gravi.

Nel 1951, dopo la sconfitta sindacale della “lotta dei cinque mesi” per la regolamentazione del sistema dei cottimi, era stata introdotta una nuova tecnologia, cosiddetta “a franamento”. Non venivano più usate due uscite, come in passato, e quando una galleria era stata sfruttata, la si faceva franare. Pare importante qui ricordare un precedente episodio, avvenuto appena tre mesi prima dell’esplosione; l’operaio Otello Tacconi, dopo avere denunciato, in una lettera al giornale “l’Unità”, la pericolosità del sistema, con la nuova pratica che, per la sicurezza, prevedeva di “mandare un maialino d’India in profondità, a segnalare la presenza dell’ossido di carbonio”. Era stato, così, licenziato in tronco.

Come prassi, comunque, prima dell’inizio del turno di lavoro, vi era anche un incaricato, che avrebbe dovuto attraversare le gallerie della miniera con una lampada “Davy”, in grado di evidenziare, aumentando di luminosità azzurra, se vi fosse stato accumulo di gas, per poi riferirlo alla direzione. Questa avrebbe dovuto, in tal caso, far evacuare la miniera per ventilarla intensamente per alcune ore prima di far ritornare i lavoratori, anche se ciò avrebbe significato perdita di ore di lavoro e tonnellate di carbone, cioè “denaro” per i padroni e gli alti dirigenti della miniera. E le lotte sindacali stavano attraversando una fase di forte riflusso…

Era il 4 Maggio 1954 alle 8,15 di mattina; i minatori avevano appena cominciato a lavorare, quando avvenne una devastante esplosione nella zona chiamata “Pozzo Camorra sud” a 260 metri di profondità, dove si registrò poi la maggior parte dei 43 morti, tra cui molti carbonizzati. Lo spostamento d’aria si riverberò per tutta la miniera, trascinando fine polvere di carbone, rendendo l’aria irrespirabile per gli altri minatori superstiti, che uscirono il più rapidamente possibile dalla miniera. Vi furono anche crolli; lo scoppio fu cosi forte, che scaraventò grandi massi e detriti all’esterno attraverso il pozzo d’ingresso, ferendo anche un tecnico che si trovava all’entrata del pozzo, colpito da un pezzo di trave.

Il libro “La vita agra”, di Luciano Bianciardi, un ex minatore di quella miniera, ricorda, fra l’altro, così la situazione dei giorni precedenti: “la mattina del 3 la festa era finita, e allora sotto a levare lignite. Si erano riposati abbastanza o no, questi pelandroni? Eppure, il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto era pericoloso scendere, bisognava aspettare altre 24 ore, per far tirare l’aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo.

Insomma, pur di non lavorare qualunque pretesto era buono.

L’aspiratore nuovo, i gas di accumulo, i fuochi alla discenderia 32 – come se i fuochi non ci fossero sempre in un banco di lignite. Stavolta era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendio a spegnere i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita.”

La mattina del giorno dopo la miniera era esplosa. I soccorsi, in un primo momento spontanei, furono organizzati dalla CGIL, l’unico sindacato rimasto davvero presente a Ribolla. I soccorsi aziendali tardarono, per la colpevole mancanza di attrezzature adeguate ed incapacità dei dirigenti di organizzare squadre preparate per quell’evento: basti ricordare che dovettero aspettare le maschere antigas portate dai pompieri, quando la miniera era già satura di anidride carbonica. I soccorritori dovettero procedere con grande cautela, per il pericolo di altri crolli e di nuove esplosioni; trovarono 42 cadaveri, e solo un uomo vivo e ferito, che morirà due giorni dopo per le ustioni riportate.

Al funerale delle vittime, con sole 37 bare, dato che sei uomini erano rimasti in fondo alla miniera, parteciparono ben 50mila persone.

Nel processo che poi si tenne a Verona, le famiglie dei minatori morti, in un primo momento, si costituirono parte civile, ma poi accettarono le offerte in denaro della Montecatini: un milione per ogni figlio rimasto orfano e 500 mila lire a vedova, non poco per chi ora aveva problemi di sopravvivenza!…  Il processo, comunque, si concluse il 26 Novembre 1958 con l’assoluzione di tutti gli imputati, sei top manager, e la strage fu archiviata perché le morti erano state causate “da tragica fatalità, non dall’incuria”. Anche al Tacconi era stata fatta un’offerta, la liquidazione più un posto da guardiano in un’altra azienda Montecatini, ma Otello la rifiutò. Visto che venivano utilizzate in molte miniere di carbone europee molto meno pericolose, le tecnologie in uso nel 1954, se adoperate, probabilmente avrebbero evitato la strage dei lavoratori.

Negli anni seguenti alla strage la Montecatini smontò i castelli, tappò i pozzi ed invase di acqua le gallerie, finché, dopo cinque (5) anni, chiuse la miniera. Nel libro-inchiesta, scritto insieme a Carlo Cassola nel ’56, intitolato “I minatori della Maremma”, il Bianciardi, per spiegare i rapporti vessatori esistenti a Ribolla, aveva scritto: “La discriminazione nelle miniere “Montecatini” è divenuta sistema. Nella scheda personale è registrato a quale partito e a quale organizzazione sindacale appartiene l’operaio, se è attivista o no, se partecipa o no a scioperi. Le assunzioni vengono fatte in maniera discriminata, infischiandosi delle norme sul collocamento. Naturalmente in queste condizioni lo sfruttamento e il supersfruttamento sono stati accentuati.” 

La giustizia borghese aveva assolto la Montecatini. Ma le mani dei padroni e dei dirigenti e responsabili grondavano del sangue dei lavoratori.

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