November 30, 2024
Con sentenza n. 107 del 22 maggio 2013, la Corte Costituzionale, rigettando una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Trani in ordine all’art. 1, comma 1, del D.L.vo n. 368/2001, nella parte in cui non prevede espressamente l’onere, a carico del datore di lavoro, di indicare il nome del lavoratore sostituito, ha affermato che il criterio di identificazione personale del prestatore sostituito risponde a criteri di trasparenza ma che non si può escludere, in presenza di realtà aziendali complesse (v. Cass., n. 10175 del 28 aprile 2010), la individuazione di criteri alternativi, rigorosamente oggettivi, tali da raggiungere lo stesso fine di trasparenza.
SENTENZA N. 107
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 11 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), promosso, in relazione agli articoli 3 e 77, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Trani nel procedimento vertente tra G.M. e la s.p.a. Poste Italiane con ordinanza del 21 febbraio 2011, iscritta al n. 173 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di costituzione di G.M. e della s.p.a. Poste Italiane nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 27 marzo 2013 il Giudice relatore Luigi Mazzella;
uditi gli avvocati Vincenzo De Michele e Sergio Galleano per G.M., Giampiero Proia e Luigi Fiorillo per la s.p.a. Poste Italiane e l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di Trani in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 21 febbraio 2011, iscritta al n. 173 del Registro ordinanze 2011, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 3 e 77, primo comma, della Costituzione, degli articoli 1 e 11 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES).
1.1. – Riferisce il giudice rimettente che, con domanda del 29 novembre 2010, G.M. ha convenuto in giudizio la s.p.a. Poste Italiane, chiedendo l’accertamento dell’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto il 20 maggio 2005, «per ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione del personale addetto al servizio recapito presso la Regione Sud 1 UP Canosa di Puglia assente nel periodo dal 23 maggio 2005 all’8 luglio 2005», in quanto nel documento negoziale non sarebbero stati specificamente indicati i lavoratori sostituiti, «nonché la ragione per la quale questi» ultimi sarebbero «rimasti assenti dal lavoro», nonostante che, all’indomani del d.lgs. n. 368 del 2001 – applicabile alla fattispecie ratione temporis – l’assunzione a termine per ragioni sostitutive richiedesse ancora dette indicazioni; che la società convenuta ha contestato la necessità di tale adempimento, poiché la precedente norma di riferimento – e cioè l’art. 1, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato) – è stata abrogata dall’art. 11, primo comma, del d.lgs. n. 368 del 2001, senza essere sostituita da altra disposizione di analogo contenuto.
1.2. – Precisa il rimettente che la fattispecie contrattuale è pacificamente disciplinata ratione temporis dal d.lgs. n. 368 del 2011, il cui art. 11 ha abrogato «la legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazioni», ivi compreso l’art. 1, comma 2, lettera b), a mente del quale era «consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto: … quando l’assunzione» avesse avuto «luogo, per sostituire lavoratori assenti e per i quali» fosse sussistito «il diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto di lavoro a termine» fosse stato «indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione»; che, per effetto di tale abrogazione, la causale sostitutiva è oggi disciplinata dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, il quale si limita a consentire «l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere … sostitutivo», senza più richiedere – quantomeno espressamente – che, nel contratto, siano indicati il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione.
1.3. – Il giudice a quo passa, dunque, a ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale in subiecta materia, rammentando che la Corte costituzionale, investita illo tempore dallo stesso Tribunale di Trani delle questioni di legittimità delle disposizioni succitate in relazione agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., ne aveva ritenuto la non fondatezza (sentenza n. 214 del 2009, seguita dalle ordinanze n. 325 del 2009 e n. 65 del 2010), in quanto l’onere di specificazione previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 implica che, ogni qual volta l’assunzione a tempo determinato avvenga per soddisfare ragioni di carattere sostitutivo, debbano risultare per iscritto anche il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione. Ed infatti secondo il giudice delle leggi – continua il rimettente – poiché per «ragioni sostitutive» si devono intendere motivi connessi con l’esigenza di sostituire uno o più lavoratori, la specificazione di tali motivi impone anche l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori da sostituire e delle cause della loro sostituzione, onde realizzare la finalità, sottesa all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001, di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto. Donde l’insussistenza della violazione dell’art. 77 Cost., non avendo gli impugnati artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 innovato, sotto questo profilo, rispetto alla disciplina contenuta nella legge n. 230 del 1962, ed essendo stato il Governo autorizzato – dall’art. 2, comma 1, lettera b), della legge di delega 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2000) – ad apportare modifiche o integrazioni alle discipline vigenti nei singoli settori interessati dalla normativa da attuare, al fine di evitare disarmonie tra le norme introdotte in sede di attuazione delle direttive comunitarie e, appunto, quelle già vigenti. Solo così si sarebbe garantita la piena coerenza della nuova disciplina anche sotto il profilo sistematico, in conformità con quanto richiesto dal citato art. 2, comma 1, lettera b), della legge di delega.
Neppure la denunciata lesione dell’art. 76 Cost. era stata riscontrata, poiché – secondo la valutazione della Corte – le norme censurate, limitandosi a riprodurre la disciplina previgente, non determinano alcuna diminuzione della tutela già garantita ai lavoratori dal precedente regime e, pertanto, non si pongono in contrasto con la clausola n. 8.3 dell’accordo-quadro recepito dalla direttiva 1999/70/CE, secondo la quale l’applicazione dell’accordo non avrebbe potuto costituire un motivo per ridurre il livello generale di tutela già goduto dai lavoratori. Dopo queste pronunce interpretative di rigetto del Giudice delle leggi che sembravano aver risolto ogni problema ermeneutico – prosegue il rimettente – la Corte di cassazione, con due sentenze del 26 gennaio 2010 (n. 1576 e n. 1577), ha ritenuto di poter «interpretare» la sentenza «interpretativa di rigetto» del Giudice delle leggi e, sulla base di questa, di essere abilitata ad operare un distinguo, nel senso «che, nella illimitata casistica che offre la realtà concreta delle fattispecie aziendali, accanto a fattispecie elementari in cui è possibile individuare fisicamente il lavoratore o i lavoratori da sostituire, esistono fattispecie complesse in cui la stessa indicazione non è possibile e “l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori” deve passare necessariamente attraverso la “specificazione dei motivi”, mediante l’indicazione di criteri che, prescindendo dall’individuazione delle persone, siano tali da non vanificare il criterio selettivo che richiede la norma». Con sentenza 28 aprile 2010, n. 10175, la Suprema Corte ha ribadito il suddetto orientamento (ulteriormente confermato da Cass. 7 febbraio 2011, n. 2990), aggiungendo che il contratto a termine «in una situazione aziendale complessa è configurabile come strumento di inserimento del lavoratore assunto in un processo in cui la sostituzione sia riferita non ad una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica che sia occasionalmente scoperta; in quest’ultimo caso, il requisito della specificità può così ritenersi soddisfatto non tanto con l’indicazione nominativa del lavoratore o dei lavoratori sostituiti, quanto con la verifica della corrispondenza quantitativa tra il numero dei lavoratori assunti con contratto a termine per lo svolgimento di una data funzione aziendale e le scoperture che, per quella stessa funzione, si sono realizzate per il periodo dell’assunzione».
Dalle sopra richiamate pronunce della Corte di legittimità – tutte del medesimo tenore – il Tribunale di Trani desume che sia tornata attuale la questione di costituzionalità già da esso sollevata con ordinanza del 21 aprile 2008. Anzi, che siano emersi ulteriori profili di illegittimità delle norme nuovamente censurate.
Il giudice a quo muove dalla premessa che, in ragione della pluralità delle sentenze rese in argomento dalla Suprema Corte, debba ormai considerarsi «diritto vivente» il principio secondo cui, nei contratti a tempo determinato, con specifico riferimento alle cosiddette esigenze sostitutive, l’onere di specificità preteso dal comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 possa essere assolto dal datore di lavoro in maniera diversa, a seconda della complessità o meno della struttura aziendale e che, quindi, l’indicazione del nominativo del lavoratore sostituito e della ragione della sua assenza sia necessaria solo in una situazione aziendale elementare. Tale distinguo – in quanto costituente «diritto vivente» – è ritenuto vincolante dal giudice a quo, che si reputa «tenuto a farne applicazione nel caso di specie, benché non ve ne sia traccia nei provvedimenti della Corte costituzionale innanzi richiamati e per quanto lo ritenga non condivisibile alla luce delle puntuali ragioni espresse dalla Corte d’appello di Bari (tra le tante, v. la sentenza n. 5546/2010)», per la quale «sembra quasi ovvio osservare che anche le realtà aziendali più complesse sono strutturate sulla base di una articolazione territoriale diffusa di molteplici unità produttive, a loro volta connesse, in via gerarchica e funzionale, ad organismi intermedi tra le basi operative ed il vertice aziendale. Sicché è evidente che ciascun organismo intermedio, attraverso il preposto a ciascuna sede o unità operativa, è in grado di conoscere esattamente il lavoratore o i lavoratori (aventi diritto alla conservazione del posto) e, quindi, è ben in grado di renderlo noto, in sede di stipula del contratto, anche al contrattista a termine».
1.4. – Tutto ciò premesso, il giudice a quo rileva, anzitutto, la non manifesta infondatezza delle proposte questioni di legittimità.
1.4.1. – Con riguardo all’art. 3 Cost., perché, a suo avviso, consentire nei contratti a termine per esigenze sostitutive forme differenziate di controllo (a seconda della dimensione della struttura organizzativa aziendale) finirebbe per produrre discriminazioni assolutamente ingiustificate dal punto di vista dei lavoratori, così da legittimare, in alcune situazioni, come quella di specie, forme di controllo solo apparenti e per nulla appaganti, oltre che insufficienti ad «assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto», così come richiesto dalla Corte costituzionale nelle pronunzie innanzi richiamate.
1.4.2. – Con riguardo all’art. 77, primo comma, Cost., perché nell’ordinanza con la quale lo stesso tribunale aveva già sollevato la questione di costituzionalità e, soprattutto, nella sentenza n. 214 del 2009 della Corte costituzionale (e nelle sue ordinanze successive), il problema che si era posto era proprio quello di verificare se il legislatore delegato fosse stato autorizzato da quello delegante ad abrogare l’art. 1, secondo comma, lettera b), della legge n. 230 del 1962, che consentiva l’apposizione del termine «quando l’assunzione» avesse avuto «luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali» fosse sussistito «il diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto di lavoro a termine» fosse stato «indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione». Di fronte a tale questione, l’interpretazione «vivente» del giudice di legittimità, ad avviso del giudice a quo, avrebbe ignorato che la Corte costituzionale aveva adottato un’interpretazione “conservativa” (nel senso che nulla era cambiato rispetto al passato) proprio perché altrimenti (avendo posto la premessa che il legislatore delegato era tenuto, in parte qua, a riprodurre la stessa norma previgente) sarebbe stata costretta a dichiarare l’illegittimità delle norme scrutinate per mancanza di delega. Anche perché la direttiva comunitaria che il Governo era stato delegato ad attuare non imponeva certamente di abrogare l’art. 1, comma 2, lettera b), della legge n. 230 del 1962, limitandosi, invece, a richiedere d’intervenire solo su alcuni aspetti delle normative interne in tema di contratto a termine, peraltro estranei ai presupposti per l’apposizione della clausola al primo contratto di lavoro a tempo determinato.
1.5. – Secondo il tribunale rimettente, infine, la questione sarebbe da ritenere rilevante nel giudizio a quo, in quanto l’eventuale espunzione dal nostro ordinamento giuridico degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, siccome comportante la reviviscenza dell’art. 1, comma 2, lettera b), della legge n. 230 del 1962, rifluirebbe certamente nel giudizio promosso dal ricorrente, essendo in grado, ex se, di produrre l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro controverso, stante la mancata indicazione, nel documento negoziale, dei lavoratori sostituiti, nonché della ragione per la quale questi sarebbero rimasti assenti dal lavoro. Nel contempo, il quadro normativo, interpretato nei termini prospettati dalla Corte di cassazione, se ed in quanto confermato, imporrebbe al giudice a quo di non tenere conto, ai fini della delibazione della legittimità del termine, della carenza nel documento negoziale di qualsiasi riferimento al nominativo del lavoratore sostituito e al motivo della sua assenza.
2. – Con memoria depositata il 12 settembre 2011 si é costituito G.M., chiedendo che la Corte dichiari l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, con riferimento agli artt. 3 e 77, primo comma, Cost. ed argomentando ampiamente ai fini dell’accoglimento delle questioni proposte dal Tribunale di Trani con l’ordinanza succitata.
2.1. – Il ricorrente nel giudizio a quo, dopo aver ricostruito dettagliatamente tutto il pregresso quadro giurisprudenziale, interno ed europeo, stigmatizza l’orientamento accolto dalla Corte di cassazione, perché, a suo avviso, «limitarsi a richiedere, in caso di assunzioni per esigenze sostitutive l’area geografica di operatività, la qualifica di appartenenza (senza alcun riferimento allo specifico settore di operatività) e limitare il controllo giudiziale al raffronto tra assenti (a tempo indeterminato) e assunti (a tempo determinato) significa consentire all’azienda di assumere una quota “fissa” di lavoratori “precari” destinati a sostituire in pianta stabile le ordinarie assenze del personale dovute a ferie, malattia, maternità, ecc… ». Annota criticamente taluni arresti della Suprema Corte in questa materia sino al punto di mettere in discussione il ruolo stesso della nomofilachia. Apprezza, invece, la giurisprudenza di merito, anche a livello di alcune corti territoriali, secondo cui – come nella sentenza del Tribunale di Trani del 4 ottobre 2010, che ha fatto seguito alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 24 giugno 2010, in causa C-98/09, già dal predetto giudice sollecitata nel medesimo caso – «l’assenza del/i nominativo/i del/i lavoratore/i e della causa della sostituzione non consente di affermare che la “motivazione” possa ritenersi specificata in modo chiaro ed esaustivo, per cui non si può ritenere assolto il requisito formale di cui all’art. l del d.lgs. n. 368 del 2001 in ordine all’individuazione per iscritto delle ragioni dell’apposizione del termine».
Conclusivamente, la suddetta parte privata evidenzia non potersi comprendere la corrispondenza logica e la congruenza interpretativa tra la trasparenza e immodificabilità, pretese ex ante dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 214 del 2009 e dalla stessa Corte di cassazione nelle sentenze n. 12985 del 2008, n. 2279 del 2010 e n. 10033 del 2010, della rigorosa motivazione dell’apposizione del termine, da un lato, e la prova a carico del datore di lavoro in sede giudiziale di giustificare l’esistenza delle ragioni eccezionali (fino al 20 giugno 2008), indi comunque temporanee (dal 21 giugno 2008 all’attualità) già rappresentate nella lettera di assunzione, tenuto conto del fatto che le ragioni sostitutive, a suo dire, non consentono (perché da esplicitare, pena la conversione, prima che inizi il rapporto a termine) di integrare “indirettamente” la motivazione generica.
3. – Con memoria depositata il 13 settembre 2011 si é costituita la s.p.a. Poste Italiane, deducendo l’inammissibilità e/o infondatezza di tutti i profili di sospetta illegittimità denunciati dal rimettente.
3.1. – La predetta società eccepisce in limine l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Trani per difetto di rilevanza sotto due profili.
3.1.1. – In primo luogo, lamenta, in particolare, che il giudice a quo non abbia minimamente verificato – e, comunque, non abbia adeguatamente motivato – se, in concreto, l’applicazione al caso di specie del diritto vivente censurato potesse determinare il rigetto del ricorso. Solo in tal caso, infatti, la soluzione della questione sollevata sarebbe stata, a suo avviso, effettivamente rilevante ai fini della decisione del giudizio principale.
3.1.2. – In secondo luogo, contesta la configurabilità di un’interpretazione giurisprudenziale qualificabile come diritto vivente alla luce dei principi espressi dalla stessa Corte costituzionale.
3.2. – Nel merito, la predetta società argomenta diffusamente a sostegno della non fondatezza delle questioni proposte dal giudice a quo.
Premessa la continuità della giurisprudenza della Corte di cassazione rispetto a quanto affermato sul piano interpretativo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 214 del 2009 e nelle due sue successive ordinanze conformi, evidenzia che anche l’interpretazione di (ritenuto) diritto vivente della prima, richiedente, a titolo esemplificativo, l’indicazione dell’«ambito territoriale di riferimento», del «luogo della prestazione lavorativa», delle «mansioni del lavoratore (o dei lavoratori) da sostituire», sarebbe volta a salvaguardare, come l’indicazione del nominativo del lavoratore sostituito, la finalità della specificazione, destinata ad «assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto».
3.2.1. – Pertanto, a parere della società convenuta nel giudizio a quo, non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 3 Cost., non potendosi ravvisare alcuna apprezzabile differenza, dal punto di vista del livello di garanzia del lavoratore assunto a termine, tra le ipotesi in cui il lavoratore sostituto viene assunto in una piccola o media impresa e dev’essere indicato il nominativo del lavoratore da sostituire e quelle ipotesi in cui lo stesso sia reclutato in imprese di dimensioni maggiori e devono, quindi, essere indicati elementi ulteriori egualmente idonei alla individuazione dei lavoratori cui supplire, ancorché non identificati nominativamente (ambito territoriale di riferimento, luogo della prestazione, mansioni dei lavoratori da sostituire e diritto degli stessi alla conservazione del posto).
In entrambi i casi, solo il datore di lavoro sarebbe gravato dall’onere di provare effettivamente la ricorrenza delle ragioni sostitutive, sollecitando sempre e comunque il giudice a verificare l’effettiva sussistenza del presupposto di legittimità prospettato.
Ad avviso di detta parte privata, inoltre, pur offrendo l’orientamento della Corte di cassazione «equivalenti e ragionevoli strumenti di controllo» a tutti i lavoratori interessati assunti per ragioni di carattere sostitutivo, sarebbe, in ogni caso, dirimente l’insegnamento della Corte costituzionale, impartito nello scrutinio della normativa in tema di licenziamenti, per cui la previsione di discipline differenziate in base al criterio della dimensione dell’impresa è conforme al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., sul fondamento che la componente numerica dell’azienda ha riflessi sul modo di essere e di operare del rapporto di lavoro organizzato. Donde l’immunità da vizi d’incostituzionalità e la razionalità della delimitazione di categorie di datori di lavoro a seconda della forza lavoro impiegata e delle strutture organizzative adottate.
3.2.2. – Quanto poi alla conformità degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2011 all’art. 77 Cost., la società Poste Italiane osserva che la legge delega n. 422 del 2000 (sub art. 2, comma 1, lettera b) aveva autorizzato espressamente il Governo ad apportare modifiche o integrazioni alle discipline vigenti – e così a prevedere, altresì, disposizioni innovative, non solo ripetitive – al fine di evitare disarmonie del complessivo quadro normativo, come già rilevato nella già menzionata sentenza n. 214 del 2009. Sicché, la focalizzazione della normativa di diretta attuazione della direttiva comunitaria su taluni aspetti (quali il divieto di discriminazioni a carico dei lavoratori assunti a termine o le misure di contrasto all’abuso dell’istituto derivante dalla reiterazione dei contratti di durata temporanea) avrebbe non solo autorizzato, ma addirittura reso necessario assoggettare all’“armonizzazione” la legge n. 230 del 1962. E ciò, anche alla luce del valore, esaltato dal diritto europeo, della riservatezza, con cui l’abrogata disciplina, comportando la comunicazione ad un terzo (quale il lavoratore assunto a termine) di informazioni sensibili attinenti, non solo all’assenza di altro lavoratore, ma anche al motivo della sua assenza, si sarebbe posta altrimenti in attrito.
4. – Con atto depositato il 13 settembre 2011 è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per la dichiarazione d’inammissibilità e, comunque, d’infondatezza delle questioni proposte dal Tribunale di Trani con l’ordinanza succitata.
4.1. – In primo luogo, ad avviso della difesa dello Stato, le questioni dovrebbero essere considerate inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza, perché il giudice rimettente avrebbe dovuto accertare previamente la ricorrenza di condizioni concrete tali da rendere impossibile la specificazione del nominativo del lavoratore sostituito, senza trascurare di verificare l’enunciazione di altri criteri che, prescindendo dall’identificazione delle persone, fossero idonei a non vanificare l’interesse tutelato dalla norma, come quelli, particolarmente rigorosi, enucleati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione.
4.2. – Nel merito, le questioni dovrebbero essere ritenute non fondate.
4.2.1. – Contro la denunciata violazione dell’art. 3 Cost., rileva la difesa dello Stato che il principio di eguaglianza in materia di lavoro non può essere considerato solo in funzione della posizione di taluni prestatori d’opera rispetto agli altri, ma va visto anche in relazione alla situazione degli imprenditori. Tale principio trova ampia declinazione nel diritto positivo, in particolare nelle diverse disposizioni che introducono discipline differenti per le grandi e le piccole imprese, confermando che le esigenze funzionali che le caratterizzano non possono non reagire anche sul rapporto di lavoro, imprimendo a questo caratteri differenziati. Da questo punto di vista, la ratio ispiratrice dell’interpretazione della Corte di cassazione sarebbe identica a quella sottesa alla giurisprudenza costituzionale, costante nell’ammettere che la componente numerica possa avere riflessi sul modo di essere e di operare del rapporto di lavoro organizzato (ex plurimis, sentenza n. 2 del 1986), tenuto conto che «la diversificazione, per determinati effetti, a seconda delle dimensioni, maggiori o minori, che il datore di lavoro imprime alla organizzazione della sua attività, è un dato aderente alla realtà economica, di comune esperienza» (sentenza n. 81 del 1969).
4.2.2. – Quanto poi alla circostanza che il legislatore delegato avrebbe superato i limiti della delega, perché questa si sarebbe limitata al recepimento della direttiva (e tale recepimento non avrebbe richiesto alcun intervento sull’art. l della legge n. 230 del 1962, che stabiliva i requisiti di validità dell’assunzione a termine), osserva la difesa dello Stato che il contenuto della delega non era circoscritto al recepimento della direttiva – al quale alludeva l’art. l, comma l, della legge n. 422 del 2000 – ma si estendeva alle modificazioni ed integrazioni delle discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, occorrenti ad evitare disarmonie (è citato, al riguardo, l’art. 2, comma l, lettera b), della predetta legge). Con la conseguenza che il legislatore delegato del 2001 non avrebbe affatto ecceduto dai limiti della delega, ma si sarebbe mosso nel pieno rispetto di essa, recependo correttamente la direttiva (conformandosi alle indicazioni della stessa in tema di prevenzione di abusi, relativamente alle ipotesi di successione di più contratti e al divieto di discriminazione) ed attuando, per altro verso, l’armonizzazione prevista dal citato art. 2 della legge n. 422 del 2000.
5. – Con memorie depositate in prossimità dell’udienza le parti private hanno insistito nelle conclusioni già rassegnate, ciascuna argomentando ulteriormente le proprie rispettive posizioni.
Considerato in diritto
1. – Con ordinanza iscritta al n. 173 del registro ordinanze del 2011 il Tribunale di Trani ha proposto questioni di legittimità costituzionale, in relazione agli articoli 3 e 77, primo comma, della Costituzione, degli articoli 1 e 11 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES). In particolare, l’art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 reca l’abrogazione della precedente legge 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), la quale prevedeva che l’assunzione a tempo determinato fosse consentita per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, ma aggiungeva esplicitamente che, in tal caso, era necessario indicare il nome del lavoratore sostituito (art. 1, comma 2, lettera b). La necessità di una simile esplicita indicazione non è invece espressamente ripetuta nell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 che si limita ad enunciare, al comma 1, che un termine al contratto di lavoro può essere fissato «a fronte di ragioni di carattere sostitutivo» (oltre che tecnico, produttivo ovvero organizzativo), purché specificate in atto scritto, a pena d’inefficacia dell’apposizione del termine (comma 2).
2. – Premette il rimettente che la norma censurata, alla luce dell’interpretazione del diritto vivente risultante da un’ormai consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, regolerebbe in modo non uniforme le assunzioni a tempo determinato per ragioni sostitutive. Nelle fattispecie elementari, ove sarebbe possibile individuare fisicamente il lavoratore o i lavoratori da sostituire, occorrerebbe indicarli nominativamente nel contratto, mentre nelle fattispecie complesse, laddove la stessa indicazione non sarebbe possibile, la specificazione dei motivi dell’apposizione del termine potrebbe essere assolta mediante l’indicazione di criteri che, pur prescindendo dall’individuazione delle persone da sostituire, siano, comunque, tali da non vanificare il criterio selettivo richiesto dalla norma.
In tal modo, ad avviso del rimettente, si determinerebbe, anzitutto, un’inammissibile discriminazione tra lavoratori dipendenti a tempo determinato in relazione alla dimensione delle aziende ove siano volta per volta assunti per ragioni sostitutive, in violazione dell’art. 3 Cost.
In secondo luogo, vi sarebbe contrasto con l’art. 77, primo comma, Cost., perché secondo il giudice a quo, avuto riguardo ai principi e criteri direttivi della legge delega 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2000), una interpretazione dell’art. l del d.lgs. n. 368 del 2001 che avesse ipotizzato, per le causali sostitutive, una disciplina anche solo parzialmente difforme da quella precedente sarebbe «fuori delega».
2.1. – La parte privata s.p.a. Poste Italiane e la difesa dello Stato hanno eccepito preliminarmente l’inammissibilità delle questioni per difetto di (motivazione sulla) rilevanza. In particolare, il giudice rimettente avrebbe trascurato di verificare la rispondenza della causale sostitutiva enunciata nel contratto portato al suo esame ai criteri di specificità recepiti dal diritto vivente. Infatti, se la clausola appositiva del termine fosse viziata anche seguendo l’impostazione della Suprema Corte – in quanto carente dei criteri di specificazione della causale che la stessa esige in alternativa alla indicazione del nome del lavoratore sostituito –, il dubbio di legittimità della normativa in oggetto alla stregua dell’interpretazione censurata non avrebbe alcuna influenza nel giudizio a quo.
L’eccezione dev’essere rigettata.
Il giudice rimettente ha descritto in modo sufficientemente preciso la fattispecie sottoposta al suo scrutinio (relativa all’assunzione di un lavoratore a termine per ragioni sostitutive senza l’indicazione del nome del lavoratore sostituito). Ha, quindi, dedotto puntualmente di dovere applicare la normativa regolatrice della materia alla stregua della interpretazione sospettata in contrasto con la Costituzione (art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, in combinato disposto con il successivo art. 11). Tale motivazione è sufficiente a palesare la rilevanza delle questioni sollevate ai fini della definizione del giudizio principale.
2.2. – La società convenuta nel giudizio principale ha eccepito, inoltre, l’inesistenza di un diritto vivente, tale non potendo essere qualificato – a suo avviso – l’orientamento adottato dalla Corte di cassazione.
Neppure tale eccezione è fondata, perché la giurisprudenza di legittimità, come dimostrano una serie di decisioni della Corte di cassazione, sezione lavoro, tutte dello stesso segno (dalle sentenze 26 gennaio 2010, n. 1576 e n. 1577 alla sentenza 11 febbraio 2013, n. 3176), si è ormai fermamente attestata sulle posizioni censurate dal giudice a quo, così da assumere i caratteri di un vero e proprio diritto vivente.
2.3. – Nel merito, le questioni non sono fondate.
2.3.1. – Erroneamente il Tribunale di Trani ritiene che la Corte di cassazione avrebbe stravolto l’interpretazione delle disposizioni censurate che questa Corte ha fornito con la sentenza n. 214 del 2009 (seguita dalle ordinanze n. 325 del 2009 e n. 65 del 2010).
Il legislatore, prescrivendo l’onere di specificazione delle ragioni sostitutive per poter assumere lavoratori a tempo determinato, ha imposto una regola di trasparenza. Ha precisato, cioè, che occorre dare giustificazione della sostituzione del personale assente con diritto alla conservazione del posto con una chiara indicazione della causa.
In tale prospettiva, il criterio della identificazione nominativa del personale sostituito è da ritenere certamente il più semplice e idoneo a soddisfare l’esigenza di una nitida individuazione della ragione sostitutiva, ma non l’unico.
Non si può escludere, infatti, la legittimità di criteri alternativi di specificazione, sempreché essi siano rigorosamente adeguati allo stesso fine e saldamente ancorati a dati di fatto oggettivi. E così, anche quando ci si trovi – come ha rilevato la Corte di cassazione – di fronte ad ipotesi di supplenza più complesse, nelle quali l’indicazione preventiva del lavoratore sostituito non sia praticabile per la notevole dimensione dell’azienda o per l’elevato numero degli avvicendamenti, la trasparenza della scelta dev’essere, nondimeno, scrupolosamente garantita. In altre parole, si deve assicurare in ogni modo che la causa della sostituzione di personale sia effettiva, immutabile nel corso del rapporto e verificabile, ove revocata in dubbio.
La giurisprudenza di legittimità, muovendo da tale assunto, ha preso solo atto della «illimitata casistica che offre la realtà concreta delle fattispecie aziendali» e ne ha desunto la necessità di tenere conto delle peculiarità dei molteplici contesti organizzativi ai fini dell’assolvimento dell’onere del datore di lavoro di specificare le esigenze sostitutive nel contratto di lavoro a tempo determinato. In conseguenza, l’apposizione del termine per “ragioni sostitutive” è stata ritenuta legittima anche quando, avuto riguardo alla complessità di certe situazioni aziendali, l’enunciazione dell’esigenza di sopperire all’assenza momentanea di lavoratori a tempo indeterminato sia accompagnata dall’indicazione, in luogo del nominativo, di elementi differenti, quali l’ambito territoriale dell’assunzione, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni e il diritto alla conservazione del posto dei dipendenti da sostituire, che permettano ugualmente di verificare l’effettiva sussistenza e di determinare il numero di questi ultimi (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze n. 1576 e n. 1577 del 2010, cit.).
In tal senso, le sentenze della Corte di cassazione hanno dato una lettura coerente con le decisioni di questa Corte. Con esse si è voluto soltanto garantire pienamente la trasparenza e la veridicità della causale e la sua successiva verificabilità in caso di contestazione.
Ne deriva che la denunciata violazione dell’art. 77, primo comma, Cost. per mancanza di delega non sussiste e che la questione sollevata sul punto non è fondata.
Secondo la legge delega n. 422 del 2000, i principi e criteri direttivi del d.lgs. n. 368 del 2001 devono essere rinvenuti: a) nella direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) di cui il citato d.lgs. costituisce attuazione, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge di delegazione; b) nel successivo comma 2, lettera b), dell’art. 2 della medesima legge di delega, che autorizza il Governo, «per evitare disarmonie con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, [ad introdurre] le occorrenti modifiche o integrazioni alle discipline stesse».
Tali criteri direttivi sono stati puntualmente osservati.
Sotto il primo profilo, la Corte di giustizia dell’Unione europea, esprimendosi sulla compatibilità comunitaria della normativa in oggetto (sentenza del 24 giugno 2010, in causa C-98/09), ha riaffermato il principio che anche il primo ed unico contratto a termine rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 1999/70/CE e dell’accordo quadro ad essa allegato. Correlativamente, la stessa Corte di giustizia ha riconosciuto che un intervento del legislatore nazionale come quello in questione, ancorché (nella prospettiva accolta dalla Corte di Lussemburgo) elimini addirittura l’obbligo datoriale d’indicare nei contratti a tempo determinato, conclusi per sostituire lavoratori assenti, il nome di tali lavoratori e i motivi della loro sostituzione e prescriva, in sua vece, la specificazione per iscritto delle ragioni del ricorso a siffatti contratti, non solo è possibile, ma neppure viola (in linea di principio) la clausola della direttiva n. 8.3., che vieta una riduzione del livello generale di tutela già goduto dai lavoratori.
Sotto il secondo profilo, questa Corte ha già riconosciuto nella sentenza n. 214 del 2009 la legittimità di disposizioni che, pur non essendo perfettamente riproduttive di quelle preesistenti, siano, però, finalizzate ad assicurare «la piena coerenza della nuova disciplina anche sotto il profilo sistematico».
Al riguardo, occorre considerare che il regime anteriore al d.lgs. n. 368 del 2001 non si esauriva nella legge n. 230 del 1962, ma comprendeva, altresì, l’art. 23, comma 1, della legge 28 febbraio 1987, n. 56 (Norme sull’organizzazione del mercato del lavoro). Orbene, tale norma (che è stata definita una “delega in bianco”: Corte di cassazione, sezioni unite, 2 marzo 2006, n. 4588) autorizzava i contratti collettivi a prevedere altre ipotesi di assunzione a termine oltre il numero chiuso delle causali (all’inizio tassativamente) stabilite dalla legge. Queste ulteriori causali di fonte contrattuale, ammissibili anche per ragioni sostitutive, potevano prescindere dall’identificazione del nominativo del lavoratore al quale quello assunto a tempo determinato sarebbe subentrato. Ciò è accaduto proprio nella contrattazione per i dipendenti della società convenuta nel giudizio a quo, ove, ad esempio, la causale sostitutiva per ferie non richiedeva alcuna specificazione di tal genere (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 4 agosto 2011, n. 16987 e 2 marzo 2007, n. 4933). Quindi, anche nell’ordinamento previgente la regola dell’indicazione del nominativo del lavoratore sostituito non era assoluta e inderogabile.
Il d.lgs. n. 368 del 2001 ha abrogato – sub art. 11 – sia la legge n. 230 del 1962, sia l’art. 23 della legge n. 56 del 1987 e ha introdotto – sub art. 1 – una disciplina generale in materia di cause giustificatrici dell’apposizione del termine al contratto di lavoro destinata a subentrare a quella risultante dalla combinazione dell’art. 1 della legge n. 230 del 1962 con l’art. 23, comma 1, della legge n. 56 del 1987. Già quest’ultima disposizione, però, ammetteva – come detto – che per il tramite delle clausole della contrattazione collettiva potessero essere stipulati contratti a tempo determinato per esigenze sostitutive senza la necessità d’indicare nel documento negoziale il nominativo del dipendente sostituito. Ed allora l’interpretazione dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, come accreditata dalla Corte di cassazione nel solco dei principi enunciati da questa Corte, non segna una inversione di tendenza neppure rispetto alla disciplina precedente. Essa, anzi, si giustifica in quell’ottica di armonizzazione e coerenza sistematica cui risponde l’inserimento delle esigenze sostitutive nella nuova previsione generale delle ragioni a fronte delle quali il contratto di lavoro subordinato può essere stipulato a tempo determinato.
In conclusione, le disposizioni censurate del d.lgs. n. 368 del 2001, intervenute in un ambito regolato dall’accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE (e dall’accordo quadro ad essa allegato) come quello del contratto a termine (anche se primo ed unico) per armonizzarne la disciplina nell’ambito delle innovazioni apportate in attuazione della normativa europea, sono certamente contenute nel “programma” della legge di delegazione.
3.3.2 – Non sussiste neppure la denunciata lesione dell’art. 3 Cost.
Non è, infatti, ravvisabile alcuna discriminazione dei lavoratori subordinati assunti a termine per esigenze sostitutive da imprese di grandi dimensioni rispetto a quelli assunti alle dipendenze di piccole imprese. In entrambi i casi, in applicazione della medesima regola, il datore di lavoro deve sempre formalizzare rigorosamente per iscritto le ragioni sostitutive nella lettera di assunzione a tempo determinato. Tanto è vero che il criterio di specificazione in concreto adottato, anche se alternativo a quello primario dell’indicazione nominativa del lavoratore sostituito, dev’essere, comunque, talmente preciso da garantire appieno la riconoscibilità e la verificabilità della motivazione addotta a fondamento della clausola appositiva del termine, già all’atto della stipulazione del contratto.
Sicché, in definitiva, la diversa modulazione del concetto di specificità dell’esigenza di supplire a personale solo transitoriamente assente non dà luogo ad un regime giuridico differenziato in base alla dimensione aziendale del datore di lavoro. E la valutazione volta per volta della rispondenza delle ragioni sostitutive rappresentate per iscritto dal datore di lavoro all’onere di specificazione di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001 è necessariamente rimessa al prudente apprezzamento del giudice della singola fattispecie.
Ne consegue la non fondatezza della questione anche sotto il profilo dell’asserita discriminazione.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 11 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES) sollevate, in relazione agli articoli 3 e 77, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Trani con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
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