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Base militare tricolore a Gibuti

Postato il 17 Settembre 2013 | in Italia, Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

Base militare tricolore a Gibuti

di Manlio Dinucci

Una bandiera tricolore a Gibuti sventolava già: quella della Francia, che dal 1977 ha «preposizionato» una unità della Legione straniera e altre forze scelte (2mila uomini) nella sua ex colonia.

Un minuscolo paese, grande come la Toscana e con solo 900mila abitanti, ma di alta importanza strategica: è situato sullo Stretto Bab El Mandeb, largo appena 30 km, che collega l’Oceano Indiano al Mar Rosso, a sua volta collegato al Mediterraneo attraverso il canale di Suez. Controllare militarmente questo passaggio, attraversato dalle principali rotte petrolifere e commerciali tra l’Asia e l’Europa, equivale a controllare il canale di Suez.

Alla bandiera francese si è aggiunta nel 2003 quella a stelle e strisce della Task force congiunta per il Corno d’Africa, formata da oltre 3mila uomini.

Ora sventola a Gibuti una seconda bandiera tricolore: quella italiana. In seguito a un accordo stipulato nel luglio 2012 dal ministero della difesa (diretto allora dall’ammiraglio Di Paola), l’Italia è stata autorizzata a installare a Gibuti una base militare.

Il suo costo non è chiaro: la legge n. 221/2012, che stabilisce «Ulteriori misure per la crescita del paese», autorizza per la base un esborso di denaro pubblico (sottratto alle spese sociali) per 3,7 milioni di euro nel 2012 e 2,6 milioni annui fino al 2020, addebitandoli sul bilancio del ministero dell’economia e delle finanze, ai quali si aggiunge la «cessione a titolo gratuito» di armamenti alle forze gibutine. Tale previsione di spesa, che non comprende i costi operativi, è la punta dell’iceberg: solo come affitto dell’area di ciascuna base, Usa e Francia pagano 30 milioni di euro annui.

L’Italia disloca forze militari a Gibuti (come hanno fatto Germania, Spagna e Giappone) ufficialmente per «il contrasto alla pirateria». In realtà le forze italiane sono inviate a Gibuti nel quadro della «guerra coperta», condotta in Africa e Medio Oriente dal Comando congiunto per le operazioni speciali Usa. L’area di operazioni della Task force statunitense, di stanza a Camp Lemonnier a fianco dell’aeroporto internazionale, si estende dalla Somalia al Sudan e alla Repubblica centrafricana, dal Kenya all’Uganda e al Congo. Copre anche lo Yemen e altri paesi mediorientali.

A Camp Lemonnier, che ora viene ampliato per accogliere altri 1.100 membri delle forze speciali, le operazioni vengono pianificate da uno staff di circa 300 specialisti. Ogni giorno decollano dalla base droni-spia, droni-killer e caccia F-15E Strike Eagle, diretti in particolare nella vicina Somalia e nello Yemen, a poche decine di chilometri al di là dello stretto. Partono di notte, con elicotteri e aerei speciali, i commandos che effettuano le incursioni. Operano in incognito, tanto che i loro nomi sono sconosciuti perfino ai militari Usa di stanza nella base. Sotto lo stesso comando operano i contractor, ossia i killer a contratto, tipo i cecchni e gli esperti di tecniche di assassinio. Stessi compiti hanno i legionari francesi.

A questa bella compagnia si uniscono i militari italiani (tra cui commandos di forze speciali), dotati anche loro di droni, teleguidati dalla base di Amendola in Puglia. Sono inviati dalla repubblica che nella sua Costituzione ripudia la guerra. Con il consenso bipartisan del parlamento, che ha favorito la mutazione genetica delle forze armate, la cui nuova missione è garantire gli «interessi esterni» in quello che lo Stato maggiore della difesa definisce «il Mediterraneo allargato». Nella nuova geografia coloniale esso si estende fino al Corno d’Africa, dove sbarcarono nel 1869 i primi colonialisti italiani.

(tratto da Il manifesto, 17 settembre 2013)

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