Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

Alcune riflessioni sui ROM

Postato il 13 Aprile 2015 | in Italia, Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

donna_ROMStranieri, nomadi, sporchi, ladri di cose e pure di bambini. Sono tanti gli stereotipi che si sentono sugli “zingari”, Rom e Sinti che vivono nel nostro paese in grandi difficoltà e vittime di discriminazioni di diverso tipo. A sfatare i miti più diffusi ci pensa l’ultimo Quaderno del Centro Regionale contro le Discriminazioni dell’Emilia Romagna, realizzato nell’ambito del progetto transnazionale Roma MATRIX. Eccoli, punto per punto.

MITO: sono nomadi

REALTA’: solo il 3% conduce vita itinerante

La comunità sinta e rom non è più definibile come “nomade”, infatti soltanto il 3% della popolazione presente in Italia conduce una vita itinerante. Alla convinzione diffusa fra gli italiani che i rom e i sinti siano tutti nomadi, per scelta o per cultura, e che vivano spostandosi da una città all’altra sono collegati la maggior parte degli stereotipi. In particolare lo stereotipo che vuole tutti gli zingari “culturalmente” ladri e quindi dediti ad attività illegali, più difficilmente perseguibili proprio a causa di uno stile di vita itinerante. Sia per i sinti che per i rom, non nomadi, è molto importante creare e mantenere buone relazioni con il territorio sia nel caso in cui vivano in roulotte e aree di sosta che nel caso in cui abbiano scelto di vivere in appartamenti. È così forte tuttavia la paura di essere discriminati che famiglie di sinti e rom preferiscono non rivelare la propria appartenenza culturale nel momento in cui trovano lavoro o vanno a vivere in case, diventando così “invisibili”. –

MITO: sono stranieri, dell’Est europeo

REALTA’: la maggioranza è italiana

Anche se sinti e rom sono spesso identificati come “stranieri”, circa il 61% possiede la cittadinanza italiana (in Emilia-Romagna il 95,9%). Si tratta quindi ,nella maggior parte dei casi, di cittadini italiani, con gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini.

MITO: sono sporchi

REALTA’: molti non hanno accesso a servizi igienici

Questa generalizzazione non tiene conto della maggior parte di sinti e di rom che curano con grande attenzione la pulizia delle roulotte e delle abitazioni. Sono soprattutto i nuclei ancora itineranti che, non potendo accedere ai servizi igienici in modo continuativo, possono risultare meno attenti alla pulizia. Non c’è tuttavia alcun legame fra appartenenza culturale e scarsa igiene, come vorrebbe lo stereotipo.

MITO: non vogliono integrarsi

REALTA’: temono di perdere la propria identità

La paura più forte sia fra sinti che fra i rom non è quella dell’integrazione con la comunità dei gagè, che anzi viene ricercata attivamente, ma quella dell’omologazione, di perdere il proprio specifico culturale. La scuola in particolare viene sempre più riconosciuta come il luogo da cui può partire una reale emancipazione, pur essendo allo stesso tempo investita dal timore che possa contribuire a fare perdere fra i giovani sinti e rom la conoscenza e la consapevolezza della cultura e della lingua. In Emilia Romagna comunque il 99,3% dei bambini rom e sinti sia iscritto alle scuole primarie e il 95,5% a quelle secondarie di primo grado. Quello che rimane un punto di attenzione è invece la frequenza scolastica: sinti e rom vivono infatti la scuola, in particolare secondaria, come un contesto discriminante e poco accogliente.

MITO: sono privilegiati, ricevono sussidi

REALTA’: non esistono leggi che garantiscano loro aiuti economici

Si discute tuttora di una quota giornaliera che sinti e rom percepirebbero, circa 30 euro al giorno, per il semplice fatto di essere sul territorio italiano. Si tratta di un’evidente distorsione della legge 390 del 1992, che permetteva ai Comuni che ospitavano persone in fuga dalla ex Jugoslavia di avere dei fondi da utilizzare per borse lavoro, gestione delle strutture abitative ecc. Anche allora nessun profugo aveva la possibilità di accedere a questi finanziamenti, che erano invece riservati ai Comuni. In realtà non vi sono leggi specifiche che riconoscano a sinti e rom uno status o diritti ulteriori rispetto a quelli garantiti alla collettività in generale.

MITO: rubano i bambini

REALTA’: i presunti rapimenti non sono mai stati provati

È un’idea tutt’ora molto diffusa, spesso avallata da leggende metropolitane e fatti di cronaca. Sono sempre storie che risultano poi essere false, ma in cui le smentite ed i chiarimenti hanno sempre uno spazio ed un’attenzione minima rispetto al clamore dato alle denunce. Così, mentre non esistono casi in cui un rapimento sia stato provato, l’idea che i rom rubino i bambini resiste con forza. Può essere utile tuttavia sapere che il pregiudizio in questo caso è speculare: i sinti e i rom temono il rapimento dei lori figli da parte dei gagi, soprattutto assistenti sociali e Polizia.

MITO: non vogliono lavorare, vivono di furti

REALTA’: combattono contro la disoccupazione anche creando cooperative

Storicamente, sinti e rom hanno sempre lavorato, concentrandosi sulle professioni che meglio si sposavano allo stile di vita itinerante (spettacolo viaggiante, giostre, raccolta del ferro, lavorazione del rame, riparazioni ecc.). A partire dagli anni ‘60, la società italiana si è urbanizzata ed industrializzata, rendendo sempre meno remunerative queste professioni, tant’è che molti rom e sinti si sono trovati espulsi dai mestieri tradizionali. Nonostante un alto tasso di disoccupazione, le comunità si stanno adeguando, sia con soluzioni innovative per supportare lo svolgimento delle attività tradizionali (come la creazione di cooperative), sia spaziando verso altri settori lavorativi.

I rom sono il capro espiatorio perfetto

Un campo rom a La Courneuve, in Francia, il 15 aprile 2013. Jerôme Sessini, Magnum/Contrasto

Tra tutte le ricorrenze internazionali, quella di oggi è forse la meno conosciuta. Da 44 anni, l’8 aprile viene celebrato come la giornata del popolo rom e sinti, in ricordo del primo congresso, che si era svolto a Londra nel 1971, in cui venne fondata l’International Romani Union; poi, nel 1979, anche l’Onu riconobbe ufficialmente questa data.

Dunque, se è vero che i rom sono tra i gruppi più discriminati nel nostro paese (forse il più discriminato), ogni occasione può essere utile per provare a smontare quella macchina di pregiudizio e di stigmatizzazione, di stereotipi e di luoghi comuni che ha consentito la diffusione di una così aggressiva ostilità.

No, i rom non rubano i bambini e no, nel nostro paese (dove una percentuale elevata è di cittadinanza italiana), non ha quasi più senso etichettarli come nomadi. D’altra parte, non tutti vivono in campi attrezzati o abusivi ai margini delle nostre città e chi invece ci vive, spesso lo fa perché costretto dall’assenza di alternative. Ed è proprio l’assenza di alternative che finisce con l’alimentare ciò che, agli occhi di tanti, sarebbe “la natura” – addirittura il dna – di quel popolo e la sua fatale “vocazione” al furto, all’accattonaggio e alla sopraffazione.

Guardiamo ai dati. Si stima che in Italia la popolazione rom e sinti ammonti a 180mila persone. Di queste, circa 70mila hanno la cittadinanza italiana mentre gli altri si dividono tra apolidi, ex jugoslavi e romeni. Oltre il 60 per cento di loro vive all’interno di abitazioni stabili e solo la restante parte si trova in campi attrezzati o abusivi.

Questo mostra quanto sia eccessivo – rivelandone allo stesso tempo la finalità tutta emotivo-propagandistica – il messaggio che li vorrebbe rappresentare come un’emergenza e come un fenomeno di invasione, tale da richiedere la dichiarazione dello stato d’eccezione e misure straordinarie. È ciò che, in realtà, si è cominciato a fare tra il 2008 e il 2011, quando, con un decreto governativo, si è istituita l‘“emergenza nomadi”, in relazione agli insediamenti abusivi in cinque regioni italiane (Campania, Lombardia, Lazio, Piemonte e Veneto). Quel decreto, successivamente, è stato dichiarato illegittimo dalla corte di cassazione. Ma, a distanza di anni da quel pronunciamento, il lavoro da fare resta ancora enorme.

Ne discende un altro equivoco che ha prodotto un singolare paradosso: sembra che sia in atto in Italia un conflitto tra coloro (i cattivi) che vogliono chiudere i campi nomadi e coloro (i buoni) che li vorrebbero tenere aperti, magari attrezzandoli meglio. Si tratta davvero di una colossale truffa ideologica. I campi nomadi, presenti in Italia da decenni, sono allo stesso tempo causa ed effetto della discriminazione ai danni di rom e sinti: producono, infatti, due processi strettamente correlati che si alimentano vicendevolmente e perversamente.

I rom presenti nei campi tendono inevitabilmente ad autoghettizzarsi dentro quella dimensione circoscritta e coatta di marginalità sociale e autogoverno, dove si riproducono circuiti illegali e relazioni di potere. Per contro, chi abita vicino a quei campi si convince del fatto che rappresentino una costante minaccia e, dunque, oscilla tra volontà di chiuderli in maniera definitiva e tentazione di “spazzarli via” con ogni mezzo.

Di conseguenza, premessa a qualsiasi ragionevole strategia di inclusione e integrazione è il superamento degli stessi campi nomadi. Oltretutto, dopo che alcune inchieste giudiziarie hanno cominciato a fare luce sul fenomeno – insieme ad alcune ricerche ben documentate, come quella dell’Associazione 21 luglio – lo si può dire apertamente: sulla pelle dei rom, e sul loro presunto nomadismo, hanno lucrato in molti. Appalti plurimilionari, container come scatole di latta al costo di villette con piscina, edifici fatiscenti con locali privi di finestre al prezzo di un affitto al centro di Roma. E tutto per dire, per poter continuare a dire, che i rom costituiscono un’emergenza.

Per fortuna l’Europa ogni tanto ci viene in soccorso, ed è solo grazie alle pressioni dell’Unione che nel 2012 è stata recepita nel nostro paese la Strategia nazionale d’inclusione di rom, sinti e caminanti. Un programma ancora agli inizi e tutto da realizzare concretamente, ma che – se non altro – rappresenta una prospettiva dotata di razionalità e lungimiranza.

Infine. Recentemente ho sentito citare più volte la poesia, attribuita a Bertolt Brecht,dove si immagina una successione di atti di discriminazione che colpiscono, via via, i diversi gruppi sociali e le diverse minoranze. Chi non reagisce perché, dice, “non è affar mio” verrà a sua volta discriminato, ostracizzato, messo al bando: fino a che l’ultima vittima, sopravvissuta a tutte le precedenti persecuzioni, si scoprirà totalmente sola. Non è solo una tragica parabola e un inesorabile monito morale sulla indivisibilità dei diritti.

C’è, in quei versi, l’anticipazione di una sorta di cupa gerarchia sociale dell’odio, che mostra come lo zingaro, comunque lo si chiami, concentri su di sé il massimo dell’ostilità collettiva. L’autore dei versi è, in realtà, il pastore protestante Martin Niemöller, ma è stato Brecht ad aggiungere, successivamente, quel riferimento agli zingari che ne sottolineava il ruolo di ultimi tra gli ultimi. Ecco, a distanza di settant’anni gli ultimi tra gli ultimi non hanno cambiato nome. E diventa più che mai urgente schierarsi dalla loro parte.

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