November 24, 2024
Ci ricordiamo bene la storia dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco. Era il 2010 quando sugli operai calava l’infame ricatto aziendale: o avrebbero accettato gli ennesimi sacrifici oppure la dirigenza avrebbe spostato lo stabilimento in Polonia.
Quante storie analoghe avevamo già sentito? D’altronde questo nascondono le facili chiacchiere sulla “globalizzazione”: dietro gli anonimi flussi di capitali finanziari o produttivi alla forsennata ricerca del massimo profitto ci sono capitalisti e governi che mettono deliberatamente in concorrenza i lavoratori per poter sfruttare manodopera estera a basso costo o abbassarne il costo in patria.
A differenza di tanti altri, l’episodio che si stava consumando a Pomigliano però ruppe il muro del silenzio mediatico e impressionò l’opinione pubblica, come se racchiudesse e sintetizzasse tutti gli altri. Lo sguardo freddo e cinico dell’amministratore delegato Marchionne era l’emblema dei calcoli spietati dei suoi pari e sembrava annunciare una svolta. La prima grande vertenza, da quando era scoppiata la più grande crisi economia del dopoguerra, si consumava nell’azienda-simbolo del nostro Paese segnando un passaggio al “dopo Cristo”, come Marchionne definiva paradossalmente il ritorno a un passato precedente alle conquiste dei diritti dei lavoratori. E si abbatteva su uno stabilimento combattivo in cui gli operai erano riusciti a strappare alcune conquiste, che poi nei toni razzisti dei media diventavano privilegi di un territorio di “fannulloni”.
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