December 21, 2024
Dopo sette anni di travagliati sforzi, l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha dato alla luce il Trattato sul commercio di armamenti. Scopo dichiarato è quello non di limitare le esportazioni e importazioni di armi «convenzionali», pesanti e leggere, ma di regolamentarle. Tra i principi su cui si basa il Trattato vi è infatti quello del «rispetto degli interessi legittimi degli stati di acquistare armi convenzionali per esercitare il diritto di autodifesa e per le operazioni di peacekeeping, e di produrre, esportare, importare e trasferire armi convenzionali».
Le cento maggiori industrie belliche del mondo, 78 delle quali basate negli Stati uniti e nell’Europa occidentale, potranno così continuare ad aumentare le loro vendite, il cui valore annuo stimato si avvicina ai 500 miliardi di dollari. Principali esportatori sono gli Stati uniti, seguiti da Russia, Germania, Francia e Cina, che ha scavalcato la Gran Bretagna. Principali importatori India, Pakistan, monarchie del Golfo. In forte crescita anche le importazioni di armi in Nordafrica, aumentate del 350% nel 2007-2012. Nessuno conosce però il reale valore dei trasferimenti internazionali di armi, diversi dei quali avvengono in base a transazioni politiche. Tra questi, ad esempio, i 20 veicoli blindati da combattimento Puma, dati dall’Italia ai governanti libici «a titolo gratuito» (ossia pagati con denaro pubblico dai contribuenti italiani).
A che serve allora il Trattato? Va anzitutto detto che, pur essendo stato approvato a larga maggioranza, esso ha visto significative astensioni, soprattutto quelle di Russia, Cina e India. Inoltre, anche dopo essere stato ratificato dai parlamenti nazionali (cosa non scontata, in particolare negli Stati uniti), esso non sarà vincolante ma costituirà una sorta di codice di comportamento cui i governi dovrebbero attenersi. La norma fondamentale è che le armi non devono essere fornite a stati che «minano la pace e la sicurezza e commettono violazioni del diritto umanitario internazionale». Come assicura il segretario di stato Usa John Kerry, il Trattato contribuirà a «ridurre il rischio che i trasferimenti internazionali di armi convenzionali siano usati per compiere i peggiori crimini del mondo, inclusi terrorismo, genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra».
In altre parole, il Trattato autorizza a fornire armi ai «buoni» ma vieta tassativamente di fornirle ai «cattivi». Resta da vedere quali sono gli uni e gli altri. Se il Trattato ad esempio fosse stato approvato dall’Onu nel 2011, che cosa sarebbe avvenuto? Esso sarebbe stato usato per giustificare il ferreo embargo alle forniture di armi al governo libico, accusato di crimini contro l’umanità. Allo stesso tempo sarebbe servito a rendere legali le forniture di bombe statunitensi agli alleati (Italia compresa) che le avevano terminate nelle prime settimane di bombardamenti.
Oggi, sottolinea la responsabile di Oxfam International per il controllo degli armamenti, dando voce a un’idea diffusa nell’arco pacifista sostenitore del Trattato, esso può impedire a ridurre la strage della guerra civile in Siria, poiché «la Russia sostiene che le vendite di armi al governo sono permesse non essendovi alcun embargo». Dimentica però il crescente flusso di armi, confermato dalla recente inchiesta del New York Times (il manifesto, 27 marzo), che vengono fornite ai «ribelli» attraverso una rete internazionale organizzata dalla Cia, che vede coinvolte Turchia, Giordania e Croazia. In base a tale logica, un altro dei principi su cui si basa il Trattato, ossia «il diritto di tutti gli stati all’autodifesa individuale e collettiva riconosciuto dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite», può essere interpretato in modo tale da giustificare l’embargo delle armi al governo siriano e, allo stesso tempo, la loro fornitura ai «ribelli», asserendo che essi le usano per «autodifesa».
Diversi sostenitori del Trattato affermano che vanno bandite le vendite di armi non solo agli stati ma anche ai gruppi che ne fanno uso in azioni che violano i diritti umani, ma che esse possono essere fornite apertamente e legalmente ai «movimenti di liberazione che lottano contro governi abusivi». Appunto come quello siriano, che Usa e Nato considerano illegale, mentre armano e addestrano il «movimento di liberazione», in gran parte infiltrato dall’esterno. Le industrie belliche potranno così continuare a fare affari d’oro: basta che vendano le armi a chi le usa per «il diritto di autodifesa e per le operazioni di peacekeeping».
Manlio Dinucci
(il manifesto, 4 aprile 2013)
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