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Da Madrid. Gli intellettuali al servizio della guerra in Siria

Postato il 7 Novembre 2013 | in Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

Gli intellettuali al servizio della guerra contro la Siria

di Angeles Diez Rodriguez* | da www.michelcollon.info

Traduzione dal francese di Massimo Marcori per Marx21.it

tratto da: http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/23054-gli-intellettuali-al-servizio-della-guerra-contro-la-siria.html

*Angeles Diez Rodriguez è Dottore in Scienze Sociali e Politiche e Professore all’Università Complutense di Madrid (UCM).

Testo della conferenza tenuta all’ateneo di Madrid il 9 settembre 2013, tradotto in francese dal Collettivo Investig’Action

Il caso della Siria è uno dei più esemplari a mettere chiaramente in evidenza il ruolo della legittimazione della guerra svolto dagli intellettuali ritenuti di sinistra. Numerosi di questi hanno scelto di mettersi al servizio della guerra mediatica contro la Siria, investiti dall’aura illustre portatrice dei principi morali occidentali. Dall’alto dei loro scranni nei grandi media come pure dei media alternativi, essi elaborano spiegazioni, giustificazioni e rapporti che presentano come principi etici quando in realtà si tratta di loro personali opinioni politiche. Essi ridicolizzano, manipolano e deformano le posizioni dei militanti antimperialisti. Si permettono anche di dare lezioni ai governi latino-americani che difendono la sovranità e il principio di non ingerenza, e che dunque si oppongono alla guerra contro la Siria.

Nel giugno del 2003 nell’ambito della guerra e occupazione dell’Iraq, non era molto difficile, negli ambienti universitari, in quelli della cultura e dei militanti di sinistra, che si levassero migliaia di voci contro la guerra; siamo stati in grado di riconoscere le trappole medianiche, capaci di scoprire gli interessi dell’impero americano e dei suoi alleati, di svelare le menzogne e soprattutto di stabilire le priorità nella mobilitazione e la denuncia. Non abbiamo potuto fermare la guerra né l’occupazione dell’Irak ma abbiamo posto le fondamenta di un movimento antimperialista che avrebbe potuto costituire il freno a mano della barbarie bellicista e che, in un modo o nell’altro, aveva permesso il rinviò dell’obiettivo di proseguire la neocolonizzazione della zona.

Se nel 2003 fu relativamente facile mobilitarci contro la guerra in Iraq e i piani imperiali americani, cosa che non ha avuto il significato di appoggiare una qualunque dittatura, oggi molti ci pongono la domanda: cos’è successo perché non sorga o non continui il movimento che fece la sua apparizione nel 2003? Sicuramente, diverse sono state le ragioni intrecciate tra loro, ma preferirei distinguerne due che mi sembrano centrali: i mezzi di comunicazione di massa hanno fatto un buon lavoro di dissuasione e una parte degli intellettuali di sinistra che prima erano riferimenti politici contro la guerra, hanno scelto di servire l’altro campo.

Intellettuali di sinistra al servizio della legittimazione bellicista

Che i media di massa mentano, deformino, occultino, evidenzino, diano una forma e un volto ai nostri nemici è un’evidenza ripetuta molte volte nella storia. Essi fanno questo non perché sono gli strumenti del potere, no, essi lo fanno perché sono parte integrante del potere. Ma la giustificazione delle guerre, la “costruzione del consenso” come direbbe N. Chomsky, non si fa solo attraverso le corporazioni mediatiche. La propaganda è un sistema nel quale si inseriscono le imprese dei media, la classe politica e i suoi discorsi, la cultura occidentale onnipotente e colonialista, i giornalisti, gli artisti, gli intellettuali, gli universitari e i filosofi mediatici. Tutti questi intellettuali si sono trasformati in un “chierico secolarizzato” che “sceglie di giocare un ruolo fondamentale nell’interiorizzazione dell’ideologia della guerra umanitaria come un meccanismo di legittimazione” (Bricmont, 2005). Alcuni coscientemente, altri non del tutto, si sono messi al servizio della propaganda della guerra imperialista.

Ciò che è interessante è che questa schiera di creatori d’opinione pubblica si reclutava prima nei ranghi conservatori, tra i liberali e parte tra i socialdemocratici (ricordiamo la campagna del PSOE con “Ingresso nella Nato? No!” [http://elordenmundial.files.wordpress.com/2013/06/otano.jpg]) ma dalla guerra in Yugoslavia (1999), sono reclutati sempre più numerosi i gruppi di intellettuali che provengono dai rivoluzionari di sinistra, anticapitalisti e antimperialisti. Essi lo giustificano con argomenti morali universali e umanitari: lottare contro le dittature (ovunque esse siano) e difendere la causa dei popoli (a prescindere che essi siano le donne afgane, gli insorti libici, i manifestanti siriani, o la parte del popolo che l’opinione pubblica generale segnala come vittima delle dittature.

Alcuni di questi intellettuali furono figure di spicco del “No alla guerra” contro l’Iraq nel 2003; tuttavia dall’inizio di quelle che sono chiamate “le primavere arabe”, essi suonano nella stessa orchestra dei loro governi sostenendo il rovesciamento del tiranno B. Al-Assad e la Transizione democratica siriana; ve ne sono anche di quelli che chiedono l’intervento militare dell’Occidente come la scrittrice Almudena Grandes: “tutto sommato si tratta di Assad, un dittatore, un tiranno, un assassino che rimarrà l’unico beneficiario del non intervento.”

Si può supporre che per costoro Saddam Hussein fosse meno dittatore di Bashar Al-Assad o forse che si trattasse del fatto che in questa guerra c’erano centinaia di migliaia di cittadini nelle strade che gridavano “No alla guerra!”, cosa che non succede oggi.

Il ruolo che esercita questo “clero secolarizzato” è doppio, da un lato fornisce argomenti che giustificano l’intervento armato, dall’altro divide, indebolisce o blocca, ogni volta con crescente intensità, l’emergenza di una forte opposizione alle guerre imperialiste.

A volte per ignoranza politica, altre per errore, ma più spesso a causa di uno strisciante sentimento di superiorità morale in quanto intellettuali del mondo sviluppato, questa “sinistra” ha interiorizzato gli argomenti della destra. Secondo Bricmont, essa si è evoluta in due atteggiamenti: A) in ciò che viene chiamato imperialismo umanitario, che si appoggia sulla credenza che “i nostri valori universali” (l’idea della libertà, la democrazia) ci obblighino ad intervenire ovunque. Sarebbe una sorta di dovere morale (diritto d’ingerenza). B) il “relativismo culturale” che parte dal principio che non ci sono buoni o cattivi costumi. Avremo il caso in cui un movimento wahhabita o fondamentalista si ribelli ad una forma di repressione e venga applaudito in quanto “i popoli non si sbagliano”o, come mi ha spiegato un filosofo spagnolo, “quando i popoli parlano, la geostrategia tace”.

Strane coincidenze per la libertà e la democrazia

Il dominio imperiale è sempre militare ma necessita di un’ideologia che lo giustifichi per eliminare le resistenze di retroguardia. Oggi, grazie alla complessità del sistema di propaganda sempre più sofisticato e tecnicizzato, gran parte della costruzione di questa ideologia legittimante è nelle mani di una sinistra, al momento ancora rispettabile, che per l’opinione pubblica conta in credibilità critica grazie al suo curriculum come la difesa della causa palestinese. Il nucleo essenziale dei discorsi legittimanti si è spostato dalla “libertà” ancora classica, alla criptica “dignità”, e conserva la “democrazia” e i diritti dell’uomo come parole d’ordine. La democrazia, come sognata dal filosofo Santiago Alba serve da utopia leggera per raccogliere adepti e confondere i desideri con la realtà.

Tuttavia, vi sono circostanze in cui la parola d’ordine di libertà emerge come la fenice quando il pubblico al quale si rivolgono è troppo occidentalizzato per svelare l’enigma della “dignità”. Bricmont afferma che nel momento in cui l’impero abbandona il linguaggio della libertà perché non più credibile, questo clero umanitario lo riprende. Così, all’appello della campagna di solidarietà globale con la rivoluzione siriana firmato tra gli altri da G. Anchar, S. Alba e Tariq Ali, il cui titolo è “solidarietà con la lotta siriana per la libertà e la pace”, in appena due pagine la parola libertà viene utilizzata 14 volte.

Man mano che la guerra mediatica contro la Siria si è rafforzata, sono aumentate le coincidenze tra i rapporti imperialisti ed i discorsi di coloro che intendono appoggiare i “rivoluzionari siriani”. Seguiamo gli esempi più evidenti e compariamo “l’appello di solidarietà globale con la rivoluzione siriana” con la dichiarazione comune sulla Siria firmata da 11 paesi nel quadro della riunione del G20, una proposta degli USA per forzare un fronte di paesi ad appoggiare l’intervento armato.

Nell’appello del clero umanitario si iscrivono i seguenti argomenti:

  1. In Siria vi è una rivoluzione in cammino.
  2. L’unico responsabile delle uccisioni, della militarizzazione del conflitto e della polarizzazione della società è Bashar Al-Assad.
  3. Occorre sostenere i rivoluzionari siriani perché lottano per la libertà a livello regionale e mondiale.
  4. Occorre sostenere una transizione pacifica fino alla democrazia affinché i siriani decidano da loro.
  5. Si invoca una “Siria libera, unificata e indipendente”.
  6. Si chiede l’aiuto per tutti i siriani rifugiati o trasferiti all’interno.

Sul web della Campagna si presenta il testo dell’appello specificando che “la rivoluzione del popolo dev’essere appoggiata con tutti i mezzi” – pensiamo che tutti i mezzi significhi tutti i mezzi – e si esige che B. Al-Assad dia le dimissioni, che sia giudicato e che si ponga fine al sostegno militare e finanziario al regime siriano, unicamente al “regime siriano”.

Da parte sua, la dichiarazione comune degli USA e dei suoi alleati [ http://www.whitehouse.gov/the-press-office/2013/09/06/joint-statement-syria ], tra cui curiosamente non si trova alcun paese latino americano e di cui l’unico arabo è l’Arabia Saudita, espone i seguenti luoghi comuni:

  1. Condanna esclusivamente il governo siriano che considera il responsabile dell’attacco con le armi chimiche.
  2. La guerra contro la Siria è per difendere il resto del mondo dalle armi chimiche, evitandone la proliferazione.
  3. L’intervento tenterebbe di evitare danni maggiori: “una grande sofferenza del popolo siriano e l’instabilità regionale”.
  4. Si condanna la violazione dei diritti dell’uomo “da tutte le parti”.
  5. Si invoca un’uscita politica, non militare e si dice: “siamo impegnati verso una soluzione politica che si traduca in una Siria unita, unificata e democratica”.
  6. Si fa appello all’assistenza umanitaria, ai donatori e all’aiuto per i bisogni del popolo siriano.

Nella comparazione dei due testi, ciò che sorprende è che il primo diffonde un atteggiamento più bellicista, non riconosce che vi sono due fazioni nel conflitto, il conflitto si riduce a Bashar Al-Assad, si giustifica l’appoggio ai “rivoluzionari siriani” perché stanno compiendo la rivoluzione mondiale, non si prospetta alcuna uscita politica ma la disfatta del governo siriano. Si direbbe che questo appello sia stato redatto da una delle fazioni in conflitto che si arroga il diritto di essere il portavoce dell’intero popolo siriano.

Le trappole del linguaggio: “Noi condanniamo l’intervento, né con gli uni né con gli altri, i popoli hanno sempre ragione”

La costruzione dell’ideologia dell’imperialismo umanitario ha avuto molti percorsi. Come dicevamo all’inizio di questo intervento, questa è stata lo stendardo della sinistra benpensante (di cui una parte legata al trotskismo della 4° internazionale) che dalla guerra contro la Jugoslavia (1999) iniziò a dare forma ad un discorso moralista di comodo, che la omologava come “sinistra rispettabile” pur dichiarandosi “anticapitalista”.

Se analizziamo alcuni di questi discorsi sulla Siria, troviamo annotazioni che si ripetono. In primo luogo bisogna sempre capire il punto di partenza antimperialista e negare che si è al fianco “dell’intervento militare straniero” come fa G. Achcar nell’articolo “Contro l’intervento militare straniero, appoggio la rivolta popolare siriana”. O come S. Alba in “Siria, l’intervento sognato” che termina con un “condanno, condanno, condanno l’intervento militare degli USA”

V. Klemperer diceva nel suo libro, ”la lingua del terzo Reich”, che il linguaggio rivela ciò che una persona intende nascondere deliberatamente, agli altri o a sé stessa, e questo succede inconsciamente. Il clero umanitario non è a favore dell’intervento militare ma si sente in obbligo di ripeterlo costantemente nei propri scritti e conferenze come se il pubblico cui si rivolge non fosse del tutto convinto. Esso conviene anche del parlare di guerra e per questo utilizza costantemente l’eufemismo “intervento militare straniero” o “intervento militare americano”.

Né per gli USA, né per B. Al-Assad. L’equidistanza è senz’altro un rifugio ideale per le buone coscienze e a vantaggio dell’ambiguità che consente di posizionarsi da un lato o dall’altro a seconda dell’evoluzione degli avvenimenti. Si tratta di una falsa simmetria che pone sullo stesso piano l’aggressore e l’aggredito. Se ci dichiariamo neutrali in una situazione in cui uno stato o un gruppo di stati minacciano e dichiarano guerra ad un altro, in realtà, appoggiamo la ragione del più forte. Non è la Siria che ha dichiarato guerra agli USA o all’Europa mentre la potenza e la capacità militare della Siria è incomparabile di fronte all’impero USA ed ai suoi alleati (armi chimiche, nucleari e convenzionali).

La posizione “né-né” non convince il clero umanitario che tenta in ogni modo di far pendere le opinioni al fianco della fazione in cui si trovano i cosiddetti “rivoluzionari siriani”. In questo tentativo, non si risparmiano gli aggettivi contro il governo siriano e il suo presidente, e passano sopra alla realtà e la veridicità dei fatti: abbiamo così S. Alba che dice che è un fatto inconfutabile che “indipendentemente dal fatto che abbia o meno usato le armi chimiche contro il suo popolo, il regime dittatoriale della dinastia Assad è il primo e diretto responsabile della distruzione della Siria, della sofferenza della sua popolazione e di tutte le conseguenze, umane, politiche e regionali che ne derivano”.

Un altro luogo comune tra i classici è quello di porsi al fianco dei popoli. Qui abbiamo uno scoglio difficile da superare poiché, nella questione delle primavere arabe, i governi imperialisti si sono collocati chiaramente a favore dei popoli e sono stati i primi a mostrare il loro appoggio ai “rivoluzionari” siriani. La spiegazione più rocambolesca di tali intellettuali umanitari è la pura coincidenza, il cinismo o le perverse intenzioni dell’impero USA che fornisce l’appoggio ai popoli arabi per appropriarsi in seguito di queste rivoluzioni e imporre i propri interessi. La realtà è, secondo loro, che né gli USA né l’Europa erano interessati ad intervenire militarmente in Siria. Ma quando “i ribelli e i rifugiati siriani”, come in precedenza hanno fatto i ribelli libici, dichiarano di “reclamare l’attacco alla Siria da parte degli USA”, la definizione di “rivoluzionari” e quella di “popolo” si complica, perché qual è quel popolo rivoluzionario o quella parte di popolo che richiede ad altri stati un attacco militare?

Vista la complessità della situazione, ci rifugiamo nei nostri principi

Noi possiamo denunciare i grandi media, i politici e i pubblicisti che continuano a venderci la guerra con la stessa retorica moralista e con pratiche ciniche, ma il problema è che questo funziona, almeno con le persone con scarsa coscienza. La novità è che oggi costoro dispongono di uno stuolo di filosofi, intellettuali e artisti che si vendono come celebrità mediatiche, anche se in ambienti alternativi, che credono anche a quello che dicono, credono realmente di difendere i diritti dell’uomo e di essere al fianco dei popoli, ma la loro funzione è stata quella di accompagnare i discorsi imperialisti e di bloccare l’emergenza dei movimenti d’opposizione alla guerra impantanandoci in discussioni sterili sulle loro posizioni.

I loro testi, conferenze e interventi mediatici hanno avuto una grande efficacia per confondere, persuadere e colpevolizzare gli attivisti contrari alla guerra, le persone più disponibili ad offrire una resistenza effettiva alla guerra dell’impero e alla propaganda di guerra. Per darsi credibilità essi hanno l’abitudine di affermare che tutto è più complesso, imponderabile, in modo tale che non ci rimane che l’unica opzione, da persone sagge come siamo, di rifugiarci nella nostra buona coscienza. Se le nostre conoscenze sono deformate e utilizzate per favorire l’appoggio alla guerra, ciò sarebbe un effetto indesiderato, un danno collaterale del quale non possiamo essere considerati responsabili.

Quello che è certo è che i discorsi, gli appelli e le esigenze del clero umanitario non hanno la minima influenza sui governi occidentali, ma è altrettanto certo che essi causano danno alla possibilità di un movimento antimperialista.

Vorrei concludere con qualche parola di R. Sanchez Ferlosio sulla guerra:

a parte alcuni rari esaltati noi vediamo tutti la guerra con sfumature, ma nei momenti decisivi le sfumature non possono essere il fardello che ci impedisce di opporci alla guerra con la tenacia necessaria. Non possiamo lasciarla diventare come munizioni contro la nostra parte. E’ la nostra responsabilità politica”.

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