November 26, 2024
“Se falliamo nel tentativo di difendere la nostra causa, allora dobbiamo cambiare chi la difende, non la causa” Ghassan Kanafani
Oslo è spesso considerato come uno spartiacque nella storia palestinese, come un punto di rottura nella politica del Paese, che segna l’inizio del declino del movimento di resistenza e quindi la fine della precedente “età dell’oro” dei successi rivoluzionari. Il dibattito su come superare gli esiti tragici degli Accordi di Oslo si è spesso concentrato sulle trasformazioni politiche che ha generato; non si sono analizzate con la dovuta attenzione le dinamiche, le trasformazioni e le traiettorie che hanno condotto alla “resa di Olso”, o per usare le parole di Edward Said, alla “Versailles Palestinese”. [1] Questo scritto si ripropone di esaminare brevemente la storia del conflitto, ponendo l’accento sul processo di Oslo, per descrivere in modo articolato l’attuale stallo politico. Offre inoltre degli spunti di riflessione per porre riparo all’attuale crisi del movimento palestinese, della sua classe dirigente e dei suoi metodi di lotta.
All’indomani della Nakba, il Movimento di Resistenza ha concepito e strutturato la lotta come fondata sul concetto di giustizia, pervaso da uno spirito anti-colonialista, in cui la liberazione della Palestina storica dalla colonizzazione sionista e il ritorno della sua popolazione autoctona erano intesi come obiettivi strutturalmente interconnessi. La liberazione totale e il diritto al ritorno erano due facce della stessa medaglia, due concetti inscindibili. Negli anni ’50 e ’60, gli studenti palestinesi, supportati da ampi settori della società civile, hanno creato gruppi popolari e di lotta, partiti e organizzazioni, che portavano avanti i principi di giustizia, liberazione e ritorno dei profughi su tutto il territorio nazionale.
Verso la fine degli anni ’60, queste organizzazioni popolari e questi partiti hanno preso il controllo degli organismi dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che erano ancora gestiti dai notabili e dalle élites palestinesi, e l’hanno resa maggiormente rappresentativa della volontà popolare. L’OLP è diventata l’istituzione entro cui operava il vasto movimento popolare e “agiva in linea con la morale dell’epoca, sul modello seguito dai movimenti di liberazione nazionale su scala mondiale nella lotta anti-colonialista.” [2] Il movimento palestinese, oltre ad essere inclusivo e a rappresentare la diretta espressione della “comunità immaginata” palestinese e del suo obiettivo di liberazione, era anche frutto dell’elaborazione del suo popolo; la rivoluzione era percepita dai suoi alleati come basata su un “indivisibile senso di giustizia per tutti”, fortemente connessa alla lotta degli altri movimenti di liberazione. [3]
Tuttavia, “l’OLP è stata attraversata da violente scosse” [4] che ne hanno compromesso la capacità di mantenere un rapporto proficuo con la sua base e di dare voce alle richieste di giustizia e liberazione del suo popolo. Tali scosse sono dipese in massima parte da cambiamenti dei rapporti di forza nel quadro regionale o globale, che però fungevano da catalizzatore per cambiare le sorti del movimento nazionale per la liberazione della Palestina. Gli eventi degli anni ’70, come il Settembre nero in Giordania e la Guerra d’Ottobre del 1973 hanno indotto l’OLP a elaborare nuove strategie di lotta: il mutato scenario del mondo arabo, i cambiamenti delle alleanze e degli interessi politici nella regione richiedevano una nuova attenzione al quadro internazionale e spingevano nella direzione del raggiungimento del riconoscimento internazionale.[5]
Fu in seguito a queste considerazioni che si giunse all’adozione di un programma politico di transizione, noto come Programma dei dieci punti, nel 1974. La nuova piattaforma prevedeva l’istituzione di una “autorità nazionale combattente” su tutti i territori palestinesi liberati, come fase preliminare alla creazione di uno stato secolare democratico nei confini della Palestina storica. Il programma del 1974 rappresentava una scelta pragmatica per rafforzare la posizione dell’OLP nel quadro arabo e globale, attraverso il riconoscimento della comunità internazionale e la conquista di uno “spazio di manovra” a livello diplomatico. [6] Sebbene il programma evitasse qualsiasi formulazione che potesse mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei Palestinesi, tra cui il “diritto al ritorno”, [7] rappresentava un embrionale cambiamento nel linguaggio e nella retorica dell’OLP, nella direzione di un maggiore pragmatismo.
Una crisi più profonda, con ripercussioni negative sulle istituzioni transnazionali dell’OLP e sul suo rapporto con la base, particolarmente con quella che viveva al di fuori della Cisgiordania e di Gaza, è esplosa all’inizio degli anni ’80, quando l’OLP si è vista costretta a lasciare Beirut, nel 1982, dopo l’attacco sferrato da Israele nei campi profughi palestinesi in Libano. La prima conseguenza è stata la perdita di coesione ed efficacia delle sue strutture e del suo apparato; si è avviato un processo di burocratizzazione che ha influito negativamente sulle organizzazioni e sui movimenti popolari, in particolare su quelli in diaspora (al-Shatat),[8] causando un’erosione del loro contributo alla lotta. [9]
In questo contesto, incoraggiata dal rinnovato slancio dato alla lotta palestinese dall’Intifada del 1987, l’OLP ha tentato di rafforzare la connessione con il suo popolo attraverso la nuova articolazione di una chiara strategia politica. Nel novembre del 1988, il PNC ha dichiarato l’Indipendenza dello Stato Palestinese, optando per la soluzione dei due stati. [10] Sebbene la dichiarazione resti un testo significativo, toccante e appassionato che riflette l’essenza stessa dell’identità e della lotta palestinesi, segna un cambiamento strategico incontrovertibile, da una “soluzione giusta” a una “soluzione accettabile.” [11] Tuttavia, nonostante la proclamazione, l’OLP non fu in grado di prevenire i rovinosi effetti del degrado scatenato dalla crisi del Libano nel 1982, diventato ancora più profondo in seguito alla Guerra del Golfo nel ’90-’91. [12]
Oslo andrebbe analizzato in questa chiave, alla luce delle trasformazioni e delle crisi, degli obiettivi raggiunti e delle sconfitte subite nel lungo cammino che ha condotto agli accordi del 1993. Gli Accordi di Oslo hanno formalizzato de facto il cambiamento nella retorica e nella strategia politica dell’OLP: gradualmente, l’obiettivo è cambiato, da “lotta per la liberazione” a processo di costruzione dello stato focalizzato sulla terra, sui confini e sui diritti di rappresentanza.
Privando la lotta dei suoi principi fondativi e minando alla base la sua unità d’intenti, Oslo ha stravolto gli scopi originali della politica palestinese: [13] si rinunciava alla liberazione, al diritto al ritorno e alla giustizia. Al contrario, gli accordi hanno determinato una dipendenza economica dall’occupante, e una forte atomizzazione del tessuto sociale. Infine, hanno delegittimato un’intera classe dirigente, che ha finito per diventare il guardiano degli interessi e della sicurezza dell’occupante.
Gli Accordi di Oslo erano un tentativo di istituzionalizzare la frammentazione geopolitica del popolo palestinese in una pletora di interessi politici, ambizioni e lotte diversificate. [14] Riducendo la lotte di stampo anti-colonialista per la giustizia, la liberazione e il diritto al ritorno a mera trattativa per una “terra di pace”, questo processo ha trasformato la frammentazione geografica imposta alla società Palestinese in una frammentazione degli obiettivi politici, dei temi e delle strategie. La lotta palestinese per la giustizia è stata parcellizzata nei suoi vari aspetti: “la definizione della linea verde”, “la questione dei confini”, la “questione di Gerusalemme”, il “problema di Gaza”, la “situazione dei cittadini arabi israeliani”, o il “problema dei profughi”. Queste tematiche sono state affrontate singolarmente a vari livelli politici e diplomatici, ma non si è tenuto conto della visione politica generale, come se i diversi ostacoli al compimento della piena giustizia non fossero parte della stessa lotta.
La frammentazione politica è stata rafforzata dall’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e dalla conseguente marginalizzazione dell’OLP. Il riposizionamento dell’OLP e la sua trasformazione politica e organizzativa hanno contribuito sostanzialmente all’isolamento delle comunità palestinesi, delle loro istanze e della politica in generale.
In effetti, con gli Accordi di Oslo, il progetto di liberazione transnazionale, originariamente portato avanti dall’OLP, è stato annientato e le divisioni geografiche e politiche che personalizzavano la lotta dei Palestinesi si sono accentuate. L’OLP è diventato una scatola vuota, che vive di rendita per ciò che ha rappresentato nel passato, per il suo valore simbolico, per la speranza che milioni di Palestinesi continuano a nutrire nei suoi confronti: in verità, ha abbandonato gli obiettivi politici del suo popolo.[15]
Le conseguenze di questo processo di “de-politicizzazione della lotta palestinese” [16] sono ancora più evidenti nelle dinamiche interne del Paese negli ultimi anni e nella profonda crisi che il movimento vive tuttora.
Dopo la firma degli accordi e l’illusione della pace, il movimento nazionale è sprofondato in una paralisi generale di strategie e mobilitazione dal basso. Una paralisi generata dall’annientamento dell’essenza stessa della lotta: la convinzione che “la liberazione può essere raggiunta solo quando le nostre strategie sono in comunione con la moralità” [17] è stata sostituita dalla neutralità e da un linguaggio svuotato da ogni significato, legittimato da Oslo.
Questo ha contribuito all’isolamento della classe dirigente Palestinese dalla sua base, parte integrante della liquidazione dei diritti e dell’imposizione di un processo di “normalizzazione” nella relazione tra il colonizzatore e il colonizzato, che ha reso la classe dirigente palestinese complice dell’occupante in un sistema neo-coloniale. In questo contesto, la crisi tra Hamas e Fatah e il fallimento dei tentativi di riconciliazione negli ultimi otto anni sono stati la dimostrazione più evidente delle nuove catastrofiche strategie messe in atto dopo Oslo e delle più difficili condizioni coloniali imposte ai Palestinesi.
Allo stesso modo, la richiesta del riconoscimento avanzato dalla Palestina alle Nazioni Unite nel 2012 va inteso come parte del cambiamento politico avviatosi con Oslo. Il riconoscimento, arrivato in uno dei momenti più bui della storia palestinese, con una classe dirigente superata, più interessata a riconquistare la legittimazione internazionale che il consenso popolare, è stato solo un ulteriore tentativo di garantire lo status quo: il prosieguo delle trattative, la normalizzazione socio-economica e la cooperazione in materia di sicurezza, in linea con lo ‘spirito di Oslo’. La strategia conferma l’“ossessione” della leadership palestinese per il processo di costruzione di uno stato e il raggiungimento di un compromesso acritico, l’ostinazione di negare le tragiche conseguenze subite dal popolo palestinese, in particolare dai profughi, in seguito al tradimento della lotta anti-colonialista. Inoltre, evidenzia l’incapacità di rimettere i temi della giustizia e della liberazione al centro della lotta e, al contempo, di porre la rivoluzione Palestinese in un contesto più ampio di resistenza transnazionale contro l’oppressione e il colonialismo.
In linea con questo approccio pragmatico, l’establishment palestinese e i suoi partiti storici non hanno saputo, e non hanno voluto, ripensare il loro ruolo e quello del conflitto nel contesto delle rivolte popolari arabe. Molti analisti hanno ragionato sulle possibili conseguenze positive che le rivoluzioni arabe avrebbero potuto avere sul progetto di liberazione palestinese, per una rielaborazione della visione anti-colonialista basata sulla solidarietà regionale. [18] Le Primavere Arabe hanno ispirato i giovani palestinesi “liberi dal fardello della settarietà dell’OLP” [19], che sono scesi in strada in Cisgiordania per chiedere unità e un cambiamento radicale nelle strategie di negoziazione e di accettazione del compromesso. Ma mentre questi gruppi non organizzati tentavano di rivitalizzare la dialettica politica interna al movimento, le fazioni storiche e ampie fasce della società civile con lo sguardo ancora rivolto al progetto socio-economico di stampo neo-liberale indotto da Oslo, sono stati incapaci di creare una vera mobilitazione e di realizzare un cambiamento radicale. [20]
Questa inettitudine ha avuto conseguenze nefaste soprattutto nel caso della rivoluzione siriana, con i campi profughi palestinesi sotto assedio: praticamente tutte le forze politiche (con l’unica eccezione delle fazioni dichiaratamente a favore del regime) hanno preso le distanze dalle rivolte popolari in Siria. [21] Come ha sostenuto Qutami, mentre i profughi cercavano di sopravvivere a una nuova Nakba, “i partiti storici si dividevano, delegando alle loro responsabilità sul destino dei rifugiati palestinesi in Siria. Un comportamento che ha favorito il progetto sionista della cancellazione della Palestina e del popolo Palestinese e di una territorializzazione della regione attraverso il colonialismo.”
Alla luce degli sviluppi politici indotti da Oslo, la mia opinione è che l’unico modo per riparare all’ingiustizia che gli Accordi hanno prodotto è indirizzare un cambiamento nella visione e nei temi politici del movimento palestinese e di riportare la lotta alla sua natura originaria, quella anti-colonialista.
È necessario contestualizzare la causa palestinese nel quadro più ampio di una lotta per la giustizia e per la liberazione, l’unico modo perché possa riuscire a contrastare le condizioni di stampo coloniale imposte alla società e alla terra.
I Palestinesi dovrebbero recuperare l’unità d’intenti e i principi fondativi, che possano guidare un movimento transnazionale dal basso, che costituirà la base della lotta. Il popolo palestinese dovrebbe ricompattarsi, non in senso retorico, ma sulla falsariga di un progetto politico, per superare la dispersione e ‘ricostruire’ il tessuto sociale intorno a una visione condivisa della coesione intrinseca e inestricabile della lotta per la liberazione totale dalle strutture coloniali imposte alla loro vita. Questo processo deve passare per una seria analisi e per una discussione franca sulle modalità di riorganizzazione del popolo e del conflitto, di mobilitazione della nuova generazione e di inclusione della molteplicità delle esperienze, delle visioni e delle ideologie che caratterizzano la politica palestinese; si tratta di un passo indispensabile se si vuole rivitalizzare il movimento nazionale.
Al contempo, è necessario ri-contestualizzare la questione Palestinese nella lunga storia delle rivoluzioni anti-colonialiste: la lotta dovrebbe essere analizzata e studiata da un nuovo punto di vista, che non la concepisca come isolata. È importante “recuperare il senso di indivisibilità della giustizia”[22], che era alla base della rivoluzione palestinese, e considerare “le particolarità del Sionismo come parte della genealogia del colonialismo e dell’ingiustizia a livello transnazionale.”[23]
È fondamentale ritrovare lo spirito di solidarietà verso gli altri popoli oppressi e il senso di responsabilità verso tutte le lotte per la liberazione, la libertà e la giustizia che un tempo animavano il movimento Palestinese.
Note:
[1] Edward Said “The Morning After” London Rewiew of Books Vol. 15 No. 20 · 21 (October 1993) http://www.lrb.co.uk/v15/n20/edward-said/the-morning-after
[2]Karma Nabulsi, “The PLO: A Positive Model or Doomed for Failure? Part II Roundtable on Palestinian Diaspora and Representation” inJadaliyya http://www.jadaliyya.com/pages/index/1681/the-plo_a-positive-model-or-doomed-for-failure-par.
[3] Rabab Abdelhadi “Debating Palestine: Representation, Resistance, and Liberation” in al-Shabaka (5 April 2012) http://al-shabaka.org/debating-palestine-representation-resistance-and-liberation?page=2
[4] Karma Nabulsi, “Participatory Models of Democracy and the Refugee Issue.” Working Paper prepared for the IDRC Stocktaking Conference on Palestinian Refugees, (Ottawa, June 2003), accessed 10 January 2013 http://prrn.mcgill.ca/research/research_papers.htm#articles 7.
[5] Macintyre Ronald “The Palestine Liberation Organization: Tactics, Strategies and Options towards the Geneva Peace Conference” Journal of Palestine Studies, Vol. 4, No. 4 (Summer, 1975), pp. 65-89, p 76
[6] Jamil Hilal “The Challenge Ahead” Journal of Palestine Studies, Vol. 23, No. 1 (Autumn, 1993), pp. 46-60, p 49
[7] Ibid.
[8] The closest translation of al-shatat is “Diaspora”. However, the use of the term Diaspora with reference to the Palestinian case is inadequate. The definition of Diaspora does not address their legal status, and further, “accepts a situation of dispersion […] which implies the abstraction of the right of return. To qualify the Palestinians as Diaspora, is to eliminate the language necessary to change their situation”, Kudmani, quoted in TareqArrar, “Palestinians exiled in Europe” in Al Majdal (Spring 2006) pp. 41-45 p. 42.
[9] Hilal “The Challenge Ahead” 48
[10] Ibid 48
[11] Shafiq al HoutMy Life in the PLO, ed Jean Said Makdisi and Martin Asser trans Hader Al Hout and Laila Othman (London: Pluto Press, 2011) p252
[12] Jamil Hilal “The Challenge Ahead” p 49
[13] Ibid
[14] Alain Gresh “The Palestinian Dream On”, Le Monde Diplomatique, 149, (Paris, Jul/Sept 1998).
[15] The author had articulated on the Palestinian political and social fragmentation induced by Oslo in a previous article appeared on the PYM bookletPYM commemorate 65 Years of Nakba (15 May 2013)
[16] Massad “Oslo and the end of the Palestinian Independence”
[17] Omar Shabban “Palestinianism as the antithesis to Neutralism” Beyond Compromise (14 April 2014) Accessed 14 April 2014 http://beyondcompromise.com/2014/04/14/palestinianism-as-the-antithesis-to-neutralism/
[18] MajedKhayali “Palestinian in the context of the Arab Spring” Middle East Monitor (28 January 2013) accessed 5 June 2014 https://www.middleeastmonitor.com/articles/middle-east/5099-palestine-in-the-context-of-the-arab-spring see also Zarefa Ali and Amal Zayed “The Arab Spring and Reviving the Hope of Return”Badilaccessed 5 june 2014 http://www.badil.org/en/al-majdal/item/1928-art6
[19] Raja Khalidi “After the Arab Spring in Palestine: Contesting the Neoliberal Narrative of Palestinian National Liberation” Jadalyyia (23 March 2013) accessed 5 June 2014 http://www.jadaliyya.com/pages/index/4789/after-the-arab-spring-in-palestine_contesting-the-
[20] Ibid. See also Ben White “Why has there been no ‘Palestinian spring’? One word: Oslo” The Gardian (11 June 2012) accessed 7 June 2014 http://www.theguardian.com/commentisfree/2012/jun/11/palestinian-spring-oslo-accords
[21] Majedkhayali “Palestinians in the midst of the Syrian revolution” Middle East Monitor (29 July 2012) accessed 7 June 2014 https://www.middleeastmonitor.com/articles/middle-east/4060-palestinians-in-the-midst-of-the-syrian-revolution
[22] Abdelhadi “Debating Palestine”
[23] LoubnaQutami “Rethinking the Single Story: BDS, Transnational Cross Movement Building and the Palestine Analytic” Social Text (17 June 2014) accessed 17 June 2014 http://socialtextjournal.org/periscope_article/rethinking-the-single-story-bds-transnational-cross-movement-building-and-the-palestine-analytic/
Traduzione a cura di Romana Rubeo per Invictapalestina
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