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Guerra e affari, il decennio d’oro dell’industria bellica americana

Postato il 21 Marzo 2015 | in Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

lapressereuters-iraqPer l’industria bel­lica Usa la guerra è ovvia­mente un affare. Il terzo con­flitto in Iraq in poco più di due decenni uno dei più red­di­tizi. Men­tre l’amministrazione Obama cer­cava di masche­rare l’intervento prima con l’impellente neces­sità di sal­vare la mino­ranza yazidi, poi con il soste­gno a Bagh­dad e infine con una nuova cro­ciata anti-islamista, gli ammi­ni­stra­tori dele­gati delle prin­ci­pali mul­ti­na­zio­nali della guerra accu­mu­la­vano profitti.

In un’analisi pub­bli­cata da Tom­Di­spach, l’autore Peter Van Buren fa i conti in tasca all’industria mili­tare Usa. Die­tro stanno gli accordi di ven­dita siglati dal Con­gresso con il governo ira­cheno, su pres­sione del Pen­ta­gono, respon­sa­bile del coor­di­na­mento tra i con­trac­tor pri­vati sta­tu­ni­tensi e gli acqui­renti stra­nieri. A monte sta la legge Usa, per la quale «la ven­dita di arti­coli da difesa e ser­vizi a Stati stra­nieri viene fina­liz­zata quando il pre­si­dente ritiene che serva a raf­for­zare la sicu­rezza degli Usa e a pro­muo­vere la pace globale».

Ovvero, ven­dete armi se serve a pro­teg­gere il cit­ta­dino Usa. Che, in molti casi, paga per quelle armi: nel caso di paesi impos­si­bi­li­tati a spen­dere cifre astro­no­mi­che per difen­dere i pro­pri con­fini dai nemici dell’Occidente, è Washing­ton ad aprire i cor­doni della borsa. Ad oggi gli Usa spen­dono in media 7,5 milioni di dol­lari al giorno nella cro­ciata anti-Isis. Denaro che fini­sce poi nelle casse dell’industria mili­tare, gio­vando anche all’amministrazione pubblica.

La lista dei con­trac­tor bene­fi­ciari è lunga: la Gene­ral Ato­mics per i droni Pre­da­tor, la Nor­th­rop Grum­man per i droni Glo­bal Hawk, la Aero­Vi­ron­ment per i minu­scoli droni di sor­ve­glianza Nano Hum­ming­bird, la Digi­tal­Globe per i satel­lite, la Loc­khed Mar­tin per i mis­sili Hell­fire, la Ray­theon per i mis­sili a lungo rag­gio Toma­hawk. Dopo i primi raid con­tro posta­zioni isla­mi­ste in Iraq e le dichia­ra­zioni del pre­si­dente Obama di un con­flitto a lungo ter­mine (che fece sfu­mare il taglio di 500 miliardi di dol­lari in 10 anni al bud­get del Pen­ta­gono) i prezzi delle armi delle com­pa­gnie pri­vate sono lie­vi­tati, insieme alle quo­ta­zioni in borsa.

Pren­diamo i con­tratti siglati con Bagh­dad. Nelle prime set­ti­mane di offen­siva i mili­ziani di al-Baghdadi hanno occu­pato con estrema faci­lità basi mili­tari e magaz­zini dell’esercito ira­cheno, impos­ses­san­dosi di enormi quan­ti­ta­tivi di armi made in Usa. Con l’esercito ira­cheno allo sbando e a secco, per i ven­di­tori di armi si è aperto un ven­ta­glio di pos­si­bi­lità: c’era da rimet­tere in sesto una forza mili­tare sac­cheg­giata. E da bom­bar­dare dall’alto le stesse armi Usa oggi in mano all’Isis.

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