December 22, 2024
La vicenda della cessione di Telecom alla spagnola Telefonica, non ci sorprende e non dovrebbe meravigliare nessuno perché rappresenta l’inevitabile conclusione delle disastrose scelte di politica economica che hanno comportato il più imponente piano di privatizzazioni mai attuato in Europa.
L’ex società telefonica di stato, azienda strategica per l’economia italiana, privatizzata nel ’97 dal governo Prodi venne inizialmente acquistata da un gruppo di imprenditori italiani con a capo gli Agnelli che ne prese il controllo con il solo 6,6% del capitale. Due anni dopo tentò la scalata Roberto Colaninno insieme ad altri “arditi” che andò in porto solo grazie all’appoggio politico dell’allora presidente del consiglio D’Alema ma, il gruppo, privo di risorse, riuscì nell’impresa ricorrendo ad un maxi finanziamento di 116.000 mld di £ che ne provocò il pesante indebitamento. Nel 2001 è la volta di Tronchetti Provera, questa volta con l’appoggio del governo Berlusconi, a prendere le redini di Telecom tramite la finanziaria Olimpia e con un’operazione di maquillage societario, nel 2005, a procedere all’incorporazione di Tim, la controllata “gallina dalle uova d’oro”. L’azienda finisce, così, per esser gravata di nuovi debiti che vengono in parte ridotti con la vendita di immobili e di società satelliti. Infine, nel 2007 una nuova società denominata Telco, creata da una cordata italo-spagnola composta da Mediobanca, Assiicurazioni Generali, Intesa San Paolo, Sintonia e Telefonica, rileva il 22,4% di Telecom. Arriviamo quindi ai giorni nostri quando le controllanti italiane, di fronte all’inevitabile declino dell’azienda, invece di ricapitalizzarla, hanno la brillante idea di trovare l’accordo per la cessione a Telefonica delle loro quote in Telco che, se andrà in porto, consentirà al gestore spagnolo di portare dal 46 al 66% la sua partecipazione nella holding che controlla Telecom, con ulteriore possibilità di incrementarla fino al 100%. E’ questa la parabola di Telecom, importante azienda di stato, che da terzo gestore telefonico dell’U.e, dopo avventati passaggi di mano, spregiudicate gestioni, ripetuti saccheggi e operazioni di finanza creativa si trova ridimensionata ad operatore continentale marginale, privo di rilievo internazionale e sotto tentativo di scalata da parte di una società spagnola, anch’essa fortemente indebitata. Dal litigioso salotto politico nazionale ora si levano inconcepibili dichiarazioni di preoccupazione sulle sorti dell’ex gioiello delle partecipazioni statali che, insieme alla strategica rete infrastrutturale delle comunicazioni telefoniche e telematiche, rischia di finire in mani estere, con grave danno per l’economia nazionale ed il futuro del pese, se il governo non interverrà d’urgenza con qualche provvedimento legislativo tampone.
Sembra che si siano svegliati soltanto ora da un letargo dopo che i loro stessi governi degli ultimi vent’anni hanno decretato la chiusura dell’Iri e della stagione delle partecipazioni statali comportando la vendita a prezzi di saldo di aziende dal valore strategico inestimabile come Italsider, Sme, Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Ina, Autostrade Spa, solo per citarne alcune. Di aziende sane e dal profilo strategico rilevante è rimasto praticamente solo una quota rilevante di Finmeccanica ed Enel e di una minima in Eni, oltre a Fincantieri e a Trenitalia. Tutto il resto è andato perso. Il patrimonio costituito da aziende pubbliche a causa di irresponsabili scelte politiche, si sta da tempo drasticamente riducendo anche a beneficio di imprese straniere ma, anche di questo, sembra si accorgano solo adesso. Citiamo, fra i tanti, tre casi eclatanti di aziende importanti finite all’estero: l’ex Alumix acquistata nel 1995 dall’americana Alcoa, chiusa e delocalizzata in Arabia Saudita lo scorso anno, lasciando l’Italia totalmente priva dell’industria dell’alluminio dopo aver ottenuto 3 miliardi di euro di sovvenzioni dallo satato; la Nuovo Pignone, azienda dalla tecnologia avanzatissima, leader mondiale nella produzione di turbine a gas, passata nel 1993 nelle mani della statunitense General Elettric e le Acciaierie di Piombino che dopo esser state cedute a Lucchini nel 1992, sono finite nel 2005 nelle mani del gruppo russo Servestal che le sta portando verso la chiusura.
Le ex aziende pubbliche controllate da imprenditori italiani non hanno, tuttavia, avuto miglior sorte; è alla ribalta da oltre un anno il caso dell’Ilva di Taranto che acquistata, a prezzo stracciato, dalla famiglia Riva nel 1995, ha continuato a produrre e a conseguire cospicui utili, creando anche fondi neri, senza effettuare alcun investimento nel campo ambientale e della sicurezza del lavoro, diffondendo morte e malattie fra la popolazione tarantina e gli operai. Il sequestro è stata l’inevitabile conclusione di questa incredibile vicenda della storia industriale italiana fatta di corruzione, spregiudicatezza, arroganza e disprezzo delle norme e delle vite altrui e rappresenta la pagina più nera delle dismissioni pubbliche. Visti gli sviluppi giudiziari e le ritorsioni dei Riva, l’Italia rischia seriamente di perdere il più importante impianto siderurgico europeo.
Tutto ciò è avvenuto in Italia, non in altro lontano paese, ecco perché le polemiche e le preoccupazioni sulle sorti della telefonia italiana sollevate dall’inetta classe politica italiana sono intrise di ipocrisia. Sia il centrodestra che il centrosinistra, non solo hanno sempre sostenuto a spada tratta la politica delle privatizzazioni cercando di favorire le scalata dei “capitani d’industria” a loro più vicini ma, sono stati incapaci di valutarne le negative ricadute occupazionali e industriali, in un paese che da quando ha intrapreso tale politica ha iniziato un processo di perdita di controllo dei settori strategici dell’economia (dalle banche, alla siderurgia, dalla telefonia alla rete autostradale) a vantaggio di gestioni di rapina sia da parte di gruppi italiani che stranieri, che hanno impoverito gli asset pubblici e decretato l’invitabile declino industriale ed economico iniziato ben prima della crisi del 2008.
L’incredibile vicenda risulta anche intrisa di una insopportabile malafede da parte dei maitre a penser liberisti e dei partiti allineati a questa ideologia, che hanno sempre accusato coloro che vi si opponevano “di non volere lo sviluppo del paese”. I Cobas hanno sempre contrastato queste politiche, non solo per motivi ideologici ma, anche perché eravamo consapevoli quale fosse la strada che si andava a intraprendere e, soprattutto, dove ci avrebbe inevitabilmente portato. Dal momento che risulta inconfutabile a tutti quali siano i danni del “modello di sviluppo” che hanno perseguito, chiediamo al governo, di riflettere su questa vicenda e di non procedere, con l’ultimo devastante errore, quello di privatizzare anche le poche aziende strategiche rimaste in Finmeccanica, a partire da Ansaldo Energia, Ansaldo Sts e Ansaldo Breda che hanno già compratori stranieri alle calcagna. Errare ancora sarebbe diabolico e alla fine, le forze politiche implicate dovranno prendersi le loro responsabilità di fronte agli italiani per aver ostinatamente continuato a perseguire la strada sbagliata, fino a condurci tutti nel baratro.
Andrea Vento
Confederazione Cobas
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