Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

Lettera aperta sull’antisessismo

Postato il 2 Novembre 2013 | in Italia, Scenari Politico-Sociali | da

Riceviamo e pubblichiamo

Come compagne e compagni del C.S.A. Vittoria sentiamo l’esigenza di riprendere un ragionamento che sottolinei la centralità, all’interno del conflitto di classe e della primaria contraddizione tra capitale lavoro, di una presa di coscienza collettiva sul tema del sessimo che, anche negli ambiti del cosiddetto movimento e delle realtà politiche che si pongono quali rivoluzionarie, è troppo spesso marginalizzato. Riteniamo infatti che non rimettere in discussione questo aspetto specifico dello scontro rappresenti un arretramento teorico all’interno di tutti i nostri ambiti di lotta.

Siamo consapevoli che questo sarà un documento parziale rispetto a tutto quel mondo di sfruttamento, discriminazione e oppressione che le donne subiscono, come del resto non è nostra intenzione impartire alcuna lezione a nessuno. Ci interessa, invece, riprendere contenuti fondamentali, che sempre ci sono appartenuti e che le donne hanno imposto all’ordine del giorno con tanta fatica e determinazione in quei percorsi dai quali nasciamo e ai quali ci riferiamo ripetutamente, è oggi imprescindibile e improcrastinabile.

Pensiamo a un mondo nuovo senza più sfruttati né sfruttatori, senza classi, frontiere, o discriminazioni di genere o fondate su presunte idee di razze differenti. Una nuova società che in tutti i suoi aspetti dovrà per forza di cose essere femminista, scevra da discriminazioni basate sul sesso nella quale l’altra “metà del cielo” sarà a pieno titolo il cielo stesso in una completa parità di aspirazioni, bisogni, dignità nelle differenze.

Questi sono i contenuti che dovrebbero caratterizzare ogni nostra lotta che si tratti di picchetti, comunicati, assemblee e chiaccherate: perché è questo essere comunisti/e militanti.

Ma ancora una volta siamo purtroppo costretti e costrette nelle assemblee, nelle riunioni, nei picchettaggi e nelle manifestazioni a sentire un linguaggio sessista e omofobo: dai crumiri definiti froci senza che questo infastidisca i/le presenti (che invece si indignano e si scandalizzano solo per epiteti razzisti tra etnie differenti, ma che accettano come normali parole che esprimono discriminazione sessuale); ai cori “figli di puttana” urlati contro le forze del disordine, pessima abitudine che si era riusciti ad estirpare dai cortei ma che purtroppo si ripropone. Non ci possiamo infatti permettere, in nessuna situazione, di abdicare dal nostro ruolo politico di sviluppare la crescita collettiva e di formazione dialettica per superare i troppi retaggi culturali sessisti che permangono tra i lavoratori e lavoratrici, nel mondo della scuola, nel movimento antagonista in genere.

Non è sicuramente una questione di moralismo, di buona educazione o di offesa personale, né soprattutto riguarda solo i compagni: troppe volte sentiamo infatti anche le compagne esprimersi con il linguaggio dei padroni, assimilare un linguaggio storicamente costruito per l’uomo e dall’uomo. “Puttana, figli di puttana, mettiamoglielo nel culo, dimostriamo di avere i coglioni” fanno parte, a pari merito, di un linguaggio che racconta una società patriarcale nella quale una parte sta su un gradino più alto dell’altra. Racconta una società dove le donne vivono un doppio sfruttamento come classe e come genere.

Il linguaggio, come ben sappiamo, è lo strumento simbolico di rappresentazione del potere, della cultura, dell’educazione, della politica e dell’economia di una società. Identificare il nemico come un “figlio di puttana” è sbagliato perché attraverso il linguaggio si perpetua questa società che fa del patriarcato uno strumento di oppressione delle donne, esattamente come il capitalismo è strumento di oppressione della classe lavoratrice.

La tragedia di Lampedusa, il razzismo di stato e gli interessi del capitalismo italiano ed europeo che ne sono stati causa, sono ancora sotto gli occhi di tutti e di tutte. Ma i morti di Lampedusa, questi nostri “fratelli” e tutti gli altri che attraversano il mare, non sono solo degli strumenti per il capitalismo, su quei barconi ci sono anche quelle “sorelle” che poi verranno spesso sfruttate e buttate sulla strada, le tante vituperate “puttane” che vediamo sui nostri marciapiedi, il cui corpo è violentato e umiliato per il piacere maschile. Ma di loro poco si parla se non per fare qualche servizio televisivo che propone l’argomento come il lato oscuro del sesso o ancor peggio qualcosa di “trasgressivo”, ammiccante o pruriginoso. E poco interessa se l’oppressione e lo sfruttamento delle donne fa sempre parte di un’economia capitalistica che sopravvive anche grazie ai profitti accumulati in maniera criminale (parte integrante di questo sistema), e se il patriarcato è ancora un utile strumento per obbligare le donne a sopperire a uno stato sociale che non esiste più e a ingrossare le file dell’esercito di riserva.

E quelle donne siamo tutte noi, perché da quando nasciamo a quando moriamo la parola che ci contraddistingue come donne è sempre quella…puttana se sei suora, puttana se attraversi la strada senza guardare il semaforo, puttana se ti hanno violentato, puttana se non ti hanno mai violentato (ma è chiaro che ti piacerebbe), puttana se non fai sesso con qualcuno, puttana se lo fai con chi ti pare, puttana comunque perché quello deve essere il ruolo delle donne. E perché vorremo cancellare l’uso così diffuso di questa parola? Perché si usa “puttana” per umiliare, per ricordare sempre qual è il nostro ruolo nella società e perché la violenza sulle donne non è solo stupro, omicidio, abusi è anche un sistema pubblico e privato fatto di parole, di gesti, di significati e di immagini che impediscono la libera autodeterminazione delle donne.

Il progressivo deterioramento dei rapporti umani e sociali ci fa oggettivamente affermare che la società italiana sia oggi permeata da una sorta di assimilazione della corruzione berlusconiana e caratterizzata da un introiettamento di elementi comportamtali e dis-valori da cui anche probabilmente molti compagni e compagne, al di là della professione di comunismo, non sono esenti e questo ad oggi ci fa pensare come non sia più possibile dare nulla per scontato.

In questa fase particolare dove l’assassinio di donne, per odio e senso di possesso, è cosi diffuso a tal punto da dover coniare il nuovo vocabolo “femminicidio”, l’uso di un linguaggio che separa, differenzia e inchioda a ruoli, assume una gravità ancora maggiore perché non rappresenta un impegno nel trasformare il presente.

Non stiamo dicendo nulla di nuovo, ma di necessario, visto che se anche è vero che il movimento lo ha posto troppe volte come tema di serie B e se gran parte dei movimenti femministi annacquano contenuti radicali e rivoluzionari per essere accettati e sopravvivere cercando il consenso degli uomini, oppure si accontentano di rimanere chiusi in accademie o in linguaggi incomprensibili per molte; è anche vero che milioni di donne vivono oggi la stessa oppressione, le stesse sofferenze, le stesse paure di prima dei movimenti degli anni ’70, e ogni donna, benché non lo esprima o usi questa parola, sente una ferita profonda tutte le volte che qualcuno gliela rivolge contro.

Siamo consapevoli che leggendo questo documento molti penseranno “ecco la solita rottura” e, ancora una volta, relegheranno questo contenuto alla semplice fissazione di compagne isteriche, bacchettone, bigotte e molto probabilmente represse che non hanno altro a cui pensare che riprendere contenuti che dovrebbero essere scontati.

Qualcun altro penserà che tanto sono solo parole, che è solo un’abitudine, che non si può certo imporre un modo di parlare, soprattutto quando è considerato un gergo “normale” che si usa dappertutto e in tutte le strade: si tratta pur sempre di libertà di pensiero…

Ma crediamo che continuare a non criticare l’uso di un linguaggio sessista esprima la volontà di non discutere, anche dal punto di vista personale, le contraddizioni di un sistema atavico di privilegio maschile o ancora peggio che escluda un reale rapporto con le masse perché troppo critici o esigenti. Noi abbiamo fatto una scelta di campo, convinti che un nostro ruolo collettivo abbia senso compiuto solo se ci si assume anche la responsabilità di dare un indirizzo complessivo e questo comprende a pieno titolo l’antisessismo.

Questo ci ha portato, con rigore dialettico, a far rispettare la nostra impostazione e a imporre, in ogni momento, comprese le serate “ludiche” nel nostro centro, comportamenti consoni ad uno spazio che si pone su un terreno anticapitalista a 360° fino a interrompere concerti e a far volare sonori ceffoni a chi su questa scelta non era disposto neanche a mettersi in discussione. E questo ti fa perdere “l’uno in più” ma ti fa privilegiare la qualità dei rapporti. E questo è molto “scomodo” perché, opportunisticamente, si fa prima a girarsi dall’altra parte, a far finta di niente, perché si passa per moralisti e rigidi anziché rigorosi ma la responsabilità di tutti noi che crediamo di essere “avanguardia rivoluzionaria”, e che scegliamo di combattere questo sistema, è anche e soprattutto quella di costruire nella quotidianità uomini e donne nuove per una reale emancipazione senza la quale ogni nuovo processo rivoluzionario nascerebbe monco.

Non c’è rivoluzione senza liberazione delle donne

Non c’è liberazione delle donne senza rivoluzione

Le compagne e i compagni del Centro Sociale Autogestito Vittoria

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