November 25, 2024
Mohamed si è accasciato mentre raccoglieva i pomodori. Il caldo eccessivo, il sole forte, probabilmente la stanchezza, lo hanno stroncato: è successo l’altroieri, alle due del pomeriggio, in un campo di Nardò, in provincia di Lecce. Il bracciante, un immigrato sudanese di 47 anni, non aveva un contratto, ma era in possesso della carta di soggiorno in quanto richiedente asilo. L’azienda per cui lavorava è attualmente sotto processo per un caso di cui si è molto parlato a Lecce, un’organizzazione criminale sgominata nel 2011 grazie all’operazione di polizia Sabr (dal nome di uno dei caporali): le accuse, per sedici imputati, imprenditori e caporali ancora in attesa di una sentenza di prima grado, vanno dall’associazione per delinquere alla riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, all’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione e falso, e comprendono anche la tratta di persone.
Dodici ore sotto il sole
Ieri, per la morte di Mohamed, sono finiti sul registro degli indagati il titolare dell’azienda agricola per cui lavorava, la moglie di quest’ultimo e il caporale che lo aveva portato nel campo. Mohamed, raccontano Antonio Gagliardi e Yvan Sagnet, sindacalisti della Flai Cgil, era arrivato da pochi giorni a Nardò: come tantissimi altri braccianti usava spostarsi nei diversi territori di raccolta, in tutto il Sud, a seconda delle stagioni. La moglie e la figlia piccola si trovavano infatti a Catania, e appena appresa la notizia sono partite immediatamente per raggiungere il centro pugliese.
«Mohamed lavorava per 3,50 euro a cassone — spiega Sagnet, sindacalista della Flai — Ciascun cassone pesa 3 quintali, e più ne riempi, più vieni pagato. La giornata di lavoro inizia alle 5 del mattino e finisce tra le 17 e le 18: si passano 12 ore sotto il sole, a faticare come bestie. Mohamed probabilmente non era abituato, era la prima volta che raccoglieva pomodori, e i 42 gradi, la pressione psicologica, sono stati fatali. Non si conosce ancora il motivo esatto della morte, le autorità hanno disposto un’autopsia».
Erano irregolari anche i due lavoratori che si trovavano vicino all’uomo e che hanno lanciato l’allarme, come non erano a norma dal punto di vista della sicurezza altri 28 braccianti registrati dalla polizia in quel momento nel campo. «L’autoambulanza, chiamata dagli altri lavoratori, è arrivata dopo due ore — dice Sagnet — ma ormai era troppo tardi e Mohamed era già morto».
La storia, drammatica già in sé, diventa ancora più significativa se si guarda il contesto in cui è avvenuta: innanzitutto, come detto, l’azienda coinvolta era già sotto processo. E in quello stesso processo, avviato nel gennaio 2013 dopo due anni di indagini su una tratta di clandestini dall’Africa all’Italia, si sono costituite come parti civili anche la Flai e la Cgil. Ma evidentemente le cause legali, le imputazioni penali, non bastano a fermare certi imprenditori “spregiudicati”. Stesso discorso per i caporali, spesso immigrati anche loro: gli imputati per il caso Sabr, spiegano alla Flai Cgil, sono ad esempio tunisini, algerini, sudanesi.
Ma non basta, perché nel 2011 c’era stata un’altra vittima tra i braccianti di Nardò: «Un ragazzo era morto in una baracca e non nel campo — racconta Sagnet — Non abbiamo mai capito per quale motivo, ma deve aver contribuito la durezza del lavoro». Proprio nel 2011 è scoppiata una rivolta a Nardò, con uno sciopero dei migranti durato 13 giorni, e che poi ha acceso i riflettori sul territorio e ha contribuito alla riuscita dell’operazione Sabr, quella che ha portato sotto processo i presunti trafficanti di uomini.
Sagnet, camerunense, era uno di quei braccianti ribelli, e da allora è cresciuto fino a diventare sindacalista della Flai Cgil. «Se non è andata come a Rosarno — aggiunge il suo collega Antonio Gagliardi — è stato grazie al fatto che il sindacato ha saputo incanalare quelle lotte, e al successivo intervento delle autorità. Poi abbiamo deciso di costituirci parte civile».
Il collocamento non funziona
«Ma tante cose ancora non funzionano — conclude Gagliardi — Ad esempio le liste di collocamento pubbliche che noi del sindacato abbiamo fortemente voluto: ci sono e sono uno strumento importante, ma non è obbligatorio per le imprese pescare i lavoratori solo da lì, e quindi ritengono più comodo ed economico utilizzare ancora oggi i caporali».
«La morte di Mohamed non può restare un fatto di cronaca estiva, è un atto di accusa verso un mercato del lavoro agricolo colpito dalla piaga dello sfruttamento — dice Stefania Crogi, segretaria generale della Flai Cgil — È una situazione che denunciamo e contrastiamo da anni, incontrando enormi difficoltà anche da parte di chi — politica e istituzioni — dovrebbe dare risposte forti e immediate. Mohamed è morto perché non poteva alzare la testa per chiedere aiuto, non poteva far valere i suoi diritti».
Antonio Sciotto
(tratto da Il Manifesto del 22 luglio 2015)
Gli scorsi giorni hanno visto in Italia l’asfittico ripetersi del ciclo monotono «emergenza migranti», guerra fra poveri, strumentalizzazioni delle destre, nella fattispecie, Lega, Casa Pound, Fratelli d’Italia.
Il ciclo ricalca uno schema che ha già dato ampie prove di sé nel corso di tutto il Novecento.
Questo schema si nutre sempre dello stesso veleno: negativizzazione e criminalizzazione dell’altro in quanto tale.
Questo risultato si ottiene attraverso meccanismi retorici di falsificazione, di generalizzazione, attraverso la dilatazione e la manipolazione strumentale di dati statistici, attraverso la propagazione di allarmi sociali, l’evocazione di paure irrazionali e la contrapposizione ancestrale fra il noi e il loro come antagonismo fra il legittimo e l’illegittimo, fra la titolarità e la clandestinità. Da questo schema è espunto lo statuto universale di dignità dell’essere umano. La politica sta all’interno di questo circuito perverso o per sopravvivere alla prossima cosiddetta emergenza o per parassitare qualche vantaggio elettorale con la pretesa di ergersi a paladina degli autoctoni assediati dagli invasori.
Coloro che per origine ideale dovrebbero opporsi allo squallido trantran della politichetta come mestiere non hanno nessuna autorevolezza o credibilità per farlo, non sanno ergersi oltre lo status quo, oltre la routine mediatica. Alzare lo sguardo significa ricordare che solo quarant’anni fa, nelle terre del nord, gli «altri» erano i nostri cittadini meridionali, i terroni, ricordare che nel corso di cento anni (1870–1970) gli «altri» sono stati gli italiani, 30 milioni di emigranti (molti clandestini) nelle Americhe, in Europa e in Australia.
È necessario ricordare che cittadini autoctoni simili in tutto e per tutto a quelli che oggi nel Veneto e alle porte di Roma non vogliono nel loro quartiere un pugno di migranti africani, allora, con la stessa attitudine intollerante, non volevano gli italiani, li descrivevano come pericolosi, sporchi, violenti, criminali.
Chi oggi vuole respingere i migranti è portatore della stessa patologica mentalità di chi allora calunniava, insultava e voleva ricacciare in mare i nostri concittadini che non sfuggivano alle guerre ma alla fame endemica, alla disperazione sociale, alla mancanza di futuro.
Nell’alluvione di retorica e falsità che accompagnano il pensiero reazionario sulla «questione migranti» emerge come apoteosi del raggiro lo slogan frusto e truffaldino: «Aiutiamoli a casa loro». Ma certo! Aiutiamoli a casa loro. Allora c’è un solo modo per farlo: espellere dall’Africa ogni interesse colonialista.
Il colonialismo è stato, al di là di ogni possibile dubbio, il più vasto e perdurante crimine della storia dell’umanità. Il primo e più efferato criminale anche se non il solo è stato l’Occidente e, per nulla pentito persiste. Il crimine è perdurante e prosegue nel nostro tempo con le guerre «umanitarie» o preventive, con l’azione delle multinazionali, con la sottrazione delle risorse più preziose ai legittimi titolari, impedisce la sovranità alimentare, idrica, arraffa terre ed è in combutta con i governanti più corrotti e tirannici. Vediamo questi politicastri da quattro soldi se sono capaci di aiutarli a casa loro. Vediamo sotto i nostri occhi come sono capaci di contrastare la schiavizzazione dei lavoratori stranieri nei nostri campi di pomodori e nei nostri frutteti. Ma fra le devastazioni più imperdonabili con le quali la mentalità colonialista ha inquinato il rapporto fra uomini di culture diverse c’è la concezione dell’altro visto come minore, sottomettibile, diseguale.
Prima l’ideologia colonialista si è auto assegnata il compito di civilizzazione di altre culture definite unilateralmente come incivili, oggi che le conseguenze dell’infestazione coloniale portano grandi flussi migratori verso l’Europa, l’altro diventa indesiderabile, minaccioso, da respingere. Ovviamente colui che maggiormente viene ostracizzato è il più povero, il più disperato, mentre, per confondere le acque, ci si mostra disponibili ad accogliere colui che è provvisto di attributi accettabili. Il razzista e lo xenofobo odierni non vogliono essere definiti come tali, fingono di risentirsi contro chi li apostrofa con l’epiteto che danno mostra di ritenere insultante.
Ma oggi il vero spartiacque fra chi, diciamo, crede nella piena dignità ed integrità dell’essere umano e chi con variegate motivazioni, non lo crede risiede nelle contrapposte concezioni dell’emigrazione. Per chi accoglie in sé la dignità dell’altro come bene supremo, l’emigrazione è progetto di trasformazione per la costruzione di una società di giustizia e solidarietà. Per coloro che non percepiscono in sé l’accoglienza dell’altro come orizzonte verso cui mettersi in cammino l’emigrazione è problema, emergenza, turbativa, invasione.
Chi, individuo, associazione, partito o movimento sostiene la piena dignità dell’altro e prende sul serio la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» ha il dovere di radicalizzare la propria perorazione chiedendo subito, come da tempo suggerisce il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, l’abolizione universale del permesso di soggiorno. Il cammino sarà certo lungo ma è tempo di iniziarlo con decisione.
Moni Ovadia
(tratto da Il Manifesto del 22 luglio 2015)
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