Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

Piccolo dossier sul petrolio

Postato il 27 Ottobre 2014 | in Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

Petrolio, la lezione americana. Il barile è (quasi) senza fondo

minaccia_petrolioDai timori degli anni Settanta fino al boom di produttività negli Usa Washington  in 10 anni ha diminuito del 40% la dipendenza estera.

Il petrolio sta finendo, resteremo tutti a piedi. Un’intera generazione – tra gli anni ’70 e ’90 – è cresciuta con questa certezza. Come oggi avviene con il riscaldamento globale o i danni delle sigarette: è consenso generale, lo dicono gli scienziati, ripensiamo ai nostri comportamenti o finiremo male. Invece non era vero niente. Il petrolio non è finito, anzi, non ne abbiamo mai avuto così tanto, in attesa di essere estratto e raffinato. Ne possiedono in abbondanza i Paesi ricchi e quelli poveri, giace sotto i mari, i ghiacci, i deserti e perfino dove l’abbiamo trovato finora: appena più in là, o più profondo. Detto questo, resta intatto lo spazio per i nostalgici dell’austerity e delle profezie sulla fine dell’automobile: poiché il petrolio è ancora tantissimo, il mondo potrebbe continuare allegramente a sporcarsi e riempire l’atmosfera di gas senza darsene conto. Le paure di oggi come nemesi di quelle di quarant’anni fa. Per ragioni opposte.

Errori di calcolo

Dove hanno sbagliato, dunque, i profeti della fine dell’oro nero? Come spesso accade nella storia, in testa al mix di ragioni c’è la tecnologia. Decenni fa non era facile immaginare l’evoluzione dell’industria petrolifera. Un po’ come quel famoso boss dell’Ibm quando disse che nel mondo c’era mercato appena per una manciata di computer, o l’industriale che rifiutò il brevetto del telefono perché lo riteneva inutile. Le cronache recenti del settore sono ricche di annunci sulla «più grande scoperta del decennio».

Si contendono il titolo gli Stati Uniti, il Brasile, il Messico, l’Australia e persino la Scozia, qualche giorno dopo il referendum per l’indipendenza che basava il suo argomento più forte proprio sulla ricchezza petrolifera. Nella classifica 2013 delle scoperte di nuovi giacimenti ci sono sei Paesi africani nei primi dieci posti, una speranza per lo sviluppo di questo continente. Alcune di queste novità hanno riflessi geopolitici enormi, come la possibile indipendenza energetica degli Usa dal Medio Oriente. Anche per questa ragione molti degli scenari degli ultimi tempi vanno presi con le pinze. Come si è esagerato nel pessimismo, ora il gap tra gli annunci e la realtà può essere grande.

Almeno tre sono le rivoluzioni tecnologiche che hanno permesso di trovare petrolio dove prima non si poteva arrivare: quella shale messa a punto negli Stati Uniti; l’offshore profondo, oltre gli strati di roccia in fondo al mare, sul quale si è specializzato soprattutto il Brasile; la capacità di estrarre dalle sabbie bituminose, presenti soprattutto in Canada e in Venezuela.

Il «nuovo» petrolio

Lo shale oil è ottenuto dalla frantumazione di rocce che conservano petrolio nei pori (qualcosa di assai simile avviene con il gas). Questa tecnica consente anche trivellazioni «orizzontali», un tempo impensabili. È invasiva per l’ambiente, ma permette una produzione abbondante in poco tempo. Secondo l’ultimo rapporto dell’Iea, Agenzia internazionale per l’energia, grazie a questa tecnologia gli Usa supereranno tra qualche settimana la produzione dell’Arabia Saudita, per la prima volta dal 1991. In una manciata di anni la produzione americana è praticamente raddoppiata.

Nel 2015 agli Usa basterà importare appena il 21 per cento dei consumi interni (era il 60 nel 2005!). Memori degli errori del passato, gli esperti ammoniscono che la festa dello shale oil potrebbe durare poco e dopo il 2020 le importazioni di greggio tradizionale torneranno a crescere. Nella classifica delle riserve convenzionali, gli Stati Uniti sono appena al 14esimo posto. Ma le stime sostengono che nel mondo di shale oil ce n’è cinque volte in più del greggio che siamo abituati a conoscere.

Impatto

L’offshore di nuova generazione può cambiare il destino di Paesi come il Messico (dove il petrolio era dato in rapido esaurimento appena pochi anni fa) e il Brasile, che sogna l’indipendenza energetica e un futuro da gigante esportatore. Sul pre-sal al largo di Rio de Janeiro (si chiama così perché il petrolio è sotto uno strato di roccia e sale) sono circolati numeri assai diversi. È la più grande scoperta nella sua categoria, ma l’enorme costo di produzione è un fattore chiave: estrarlo costa attorno ai 45 dollari al barile, e se i prezzi di mercato dovessero scendere sotto i 70-80 dollari la redditività del pre-sal andrebbe in crisi. Enormi costi di produzione attendono anche le sabbie dell’Orinoco, in Venezuela. Il greggio qui conservato viene già conteggiato come riserva a tutti gli effetti, proiettando il Paese sudamericano al primo posto al mondo, davanti all’Arabia Saudita. Ma il suo destino è incerto, perché il rigido monopolio statale del Paese non ha le risorse sufficienti, e l’ideologia chavista ha impedito finora una presenza di peso delle compagnie straniere. Trattasi di greggio assai pesante, difficile da lavorare: lo stesso problema ha il Canada, che ha riserve simili al Venezuela e negli ultimi anni ha superato in potenzialità produttori storici come Iran, Irak e Russia.

È presto per sapere se la mancata profezia sulla fine del petrolio – e il boom recente di scoperte – avrà davvero influenza sugli equilibri mondiali. In una recente inchiesta il Wall Street Jornal fa notare che l’evoluzione tecnologica andrà avanti ancora a lungo, ma la scoperta di sempre nuovi giacimenti non sono un buon motivo per smettere di pensare ad un mondo senza petrolio. Al contrario: senza l’affanno dell’armageddon energetico, il mondo può pensare a fonti di energia più pulite in modo più razionale.

Rocco Cotroneo
9 ottobre 2014

 

Il calo del prezzo del petrolio è un regalo da 660 miliardi all’economia globale. A pagare sono Iran, Venezuela e Russia. E anche l’America di Obama. Ecco perché

Corriere Economia, lunedì 20 ottobre 2014

La discesa del prezzo del petrolio sembra inarrestabile. Il greggio americano è scivolato a tratti sotto gli 80 dollari e il Brent europeo si sta avvicinando a quella soglia. Malgrado l’escalation dei conflitti in Siria e in Iraq, l’instabilità del Nord Africa dopo le primavere arabe e l’acuirsi dei contrasti fra Russia e Ucraina — tutti elementi d’incertezza che dovrebbero far salire i prezzi — negli ultimi tre mesi l’oro nero ha perso un quarto del suo valore. E resterà basso, in base alle previsioni dell’International Energy Agency, finché i sauditi o gli americani, ormai soli alla guida del mercato petrolifero mondiale, non prenderanno l’iniziativa.

Regalo
Un bel regalo per l’economia, che si godrà un enorme quantitative easing di 660 miliardi di dollari all’anno, da tradurre in ribassi del prezzo della benzina e dell’energia, ma un grosso guaio per tutti i Paesi che campano dei proventi del petrolio e per chi estrae idrocarburi non convenzionali, con costi di produzione molto più alti dei concorrenti. Di norma, in una situazione come questa ci sarebbe stato un intervento dell’Opec, ma è già chiaro che nella prossima riunione, fissata a Vienna il 27 novembre, nessuno si muoverà. E intanto cominciano a cadere le prime vittime: il Venezuela è sull’orlo del default, l’Iran isolato dalle sanzioni non riesce a finanziarsi sul mercato e la Russia soffre in silenzio.

All’origine di quest’improvviso declino c’è da un lato l’eccesso di offerta sui mercati mondiali, in seguito alla fulminea rinascita della produzione petrolifera americana, dall’altro lato la domanda debole, a causa del perdurare della crisi economica globale. Le nuove tecniche di fratturazione idraulica, capaci di estrarre gli idrocarburi dagli scisti bituminosi più refrattari, hanno consentito agli Stati Uniti di aumentare la loro produzione del 60% negli ultimi cinque anni, recuperando quella posizione di leadership persa alla fine degli anni Ottanta. In base alle stime Iea, il sorpasso dovrebbe avvenire proprio questo mese, quando gli Usa raggiungeranno una produzione di quasi 12 milioni di barili al giorno.

La crescita del petrolio americano ha rimesso sul mercato mondiale circa 5 milioni di barili al giorno, che gli Stati Uniti non hanno più bisogno di importare. D’altra parte, in questi cinque anni la domanda globale è stata flagellata dalla crisi ed è aumentata a ritmi rallentati. Il nuovo taglio delle previsioni di consumo contenuto nell’ultimo rapporto mensile Iea, uscito la settimana scorsa, ha dato il colpo di grazia alle quotazioni: il 2014 si chiuderà a 92,4 milioni di barili al giorno, 200 mila in meno del previsto, mentre nel 2015 non si andrà oltre i 93,5 milioni di barili (300 mila in meno) e tutta la crescita sarà asiatica.

Meccanismo
Di qui il riallineamento dei prezzi. Un aggiustamento che, secondo gli analisti, non è destinato a restare momentaneo. In questi anni, infatti, la nuova produzione americana non ha pesato molto sul mercato grazie alle continue interruzioni delle estrazioni in Nord Africa e in Medio Oriente, i cui effetti avrebbero infiammato le quotazioni senza l’apporto dello shale oil made in Usa

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Ma ora che le primavere arabe sono finite e l’effetto calmierante è arrivato al culmine, il mercato sta finalmente prendendo atto della nuova realtà e la fascia di oscillazione del Brent, che per quasi quattro anni è rimasta fra i 100 e i 115 dollari al barile, potrebbe scendere stabilmente fra gli 80 e i 95, secondo le stime della società di analisi GaveKal. Per farlo risalire, basterebbe tagliare la produzione Opec di 2 milioni di barili al giorno per qualche settimana. Invece Riad, che ha in mano il timone del cartello, sta andando nella direzione opposta. L’obiettivo è affamare i produttori di idrocarburi non convenzionali, che lavorano con costi più alti e quindi sono molto più sensibili alla questione del prezzo.

Antoine Halff, autore del rapporto Iea, lo spiega così: le dinamiche del mercato mondiale sono state modificate dallo shale oil americano e l’Opec è sempre più riluttante a svolgere il proprio ruolo di bilanciere. In pratica, Riad non vede il senso di chiudere i rubinetti, favorendo così i concorrenti americani o dei rivali geopolitici come l’Iran e la Russia. Ma se nessuno taglia la produzione, il prezzo continuerà a scendere. Fino a dove? Difficile dirlo. A spanne, si calcola che sotto i 90 dollari al barile almeno un terzo delle piccole imprese che sono all’origine della rivoluzione dello shale oil entreranno in sofferenza.

Un anno di Brent a 80 dollari potrebbe mandarne in bancarotta parecchie, innescando il prossimo ciclo di rialzi. Ma con un anno di Brent a 80 dollari, il Venezuela sarà in default e l’Iran in ginocchio.

20 0ttobre 2014

Elena Comelli

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