November 23, 2024
14 Marzo 2020
Di fronte a moltissimi operatori sanitari infettati in Italia (ed alcuni morti), si impone una riflessione seria sul fatto che ci sia qualcosa che non va nella protezione del personale. Questo articolo che vi riporto INTEGRALMENTE é molto interessante e rileva le falle di un sistema sanitario abbandonato a se stesso da anni. Nessun corso di formazione prima del primo caso, nessun acquisto di presidi di sicurezza come scorta in previsione di, nessun protocollo pronto in caso dì…. Tutto in itinere e tutti allo sbaraglio. La Cina era troppa lontana e non poteva succedere proprio a noi. Ancora non siamo a conoscenza a livello nazionale dei numeri sul personale sanitario infetto ma tutti siamo conoscenza che se non possiamo stare in quarantena se asintomatici (ma proprio in questa fase che il soggetto é infettivo). Si assume dalle agenzie interinale operatori non formati che mettono a rischio il lavoro d’ equipe. Tutti noi sindacati sanitari stiamo denunciando ciò con lettere ma tutte inevase. In risposta solo protocolli dispositivi che cambiano in continuazione creando tanta confusione.Buona lettura.Il 13 febbraio scorso è stata pubblicata una lettera su Lancet intitolata: “Protecting health-care workers from subclinical coronavirus infection”[1]. Gli autori sottolineavano quanto il tributo pagato dal personale sanitario in precedenti epidemie fosse stato immenso. Hanno menzionato la SARS che ha contato ben 1707 casi (21%) tra i sanitari sul totale di 8098 infettati con un tasso di letalità del 9,6%. Essi poi dimostravano con documentati esempi circostanziati che il coronavirus COVID-19 in Cina è stato trasmesso al personale sanitario anche da casi pauci-sintomatici o del tutto asintomatici e concludevano: “Questi risultati giustificano misure di protezione aggressive (come occhiali protettivi, maschere FFP2 e camice idrorepellente) per garantire la sicurezza di tutti gli operatori sanitari durante la presenza di un focolaio di epidemia da COVID-19 – o future epidemie – soprattutto nelle fasi iniziali in cui le informazioni sono ancora limitate su trasmissione e potenza infettiva del virus”.Pochi giorni dopo è stato diagnosticato il primo caso di Coronavirus in Italia. E a tre settimane dal primo caso possiamo tristemente contare i troppi medici, infermieri e altro personale sanitario infettati. Il motivo di questa drammatica situazione è da ascriversi a due grandi problemi.Il primo legato al fatto che non c’è stata alcuna seria preparazione per l’eventuale arrivo dell’epidemia da COVID-19 in Italia. Per qualche ragione, forse inconscia, si riteneva che da noi non si sarebbe mai diffuso come in Cina. Pertanto niente protocolli già scritti, simulazioni, catene di comando predefinite, modalità di comunicazione interne e verso la popolazione preimpostate.Da ultimo, ma non ultimo, niente Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), in particolare mascherine (da quelle chirurgiche alle FFP2 e FFP3). Non avevamo fatto alcuna scorta e quando dopo qualche giorno dall’inizio dell’epidemia si sono iniziati a fare gli ordini, erano esaurite ovunque nel mondo.I libri e i documenti che guidano a gestire le emergenze epidemiche indicano più o meno tutti tre punti essenziali per vincere sulle epidemie altamente contagiose:- essere preparati prima dell’arrivo del primo caso con tutto quanto è necessario per agire prontamente- gestire bene la comunicazione sia interna che con la popolazione- proteggere il personale sanitario dall’infezione perché è la risorsa più preziosa.[2]Se avessimo preso sul serio almeno il terzo punto avremmo forse, come Ministero della Sanità, Protezione Civile e come Regioni, gridato immediatamente al mondo un tanto disperato quanto umile: “HELP-non abbiamo le mascherine!” dopo due o tre giorni dall’identificazione dei primi casi. Nella prima settimana di contagio eravamo gli unici in Europa ad avere casi con trasmissione autoctona. Invece è stato solo detto: “Le mascherine le abbiamo ordinate…” come se il problema potesse risolversi una volta svolto il compitino.Basti pensare a quante volte abbiamo sentito parlare in queste settimane i nostri politici ed esperti di acquisto di nuovi respiratori e quante volte li abbiamo invece sentiti nominare il drammatico problema della mancanza di DPI per gli operatori sanitari.E qui entriamo dritti nel secondo problema: per motivi forse più legati alla psicologia che alla logica gestionale “i capi” più o meno a tutti i livelli hanno, salvo eccezioni, scotomizzato il problema della protezione del personale in prima linea che invece, sia singolarmente che come categorie sindacali, ha in tutti i modi urlato fin dai primi giorni che non si poteva continuare a lavorare senza adeguati DPI.L’atteggiamento di troppi Direttori Generali, Direttori Sanitari, Direttori di Presidio e Referenti tecnici a livello Regionale è stato quello di minimizzare il problema. “Non sono necessari i DPI se non per pazienti altamente sospetti o confermati positivi”.I Sindacati riferiscono di Direttori Sanitari e di Presidio più impegnati a minacciare il personale di non usare le mascherine che a darsi da fare per procurarle (almeno per i casi in cui non vi era dubbio che fossero necessarie). Con questo non si vuole certo fare di tutta l’erba un fascio e sono noti esempi che vanno in direzione contraria. Resta il fatto che vi sono documenti scritti da Direttori sanitari o Generali che diffidano il personale dall’utilizzo di mascherine quando non previsto specificamente dal protocollo. Diffide e proibizioni anche se le mascherine erano personali o se erano state procurate per alcuni professionisti da partner esterni (es. dipendenti delle cooperative). Questo (da quanto riferitomi da un rappresentante sindacale di una ASL) contraddicendo quanto previsto per la normativa sulla sicurezza del personale (D.Lgs. 81/2008[3]). Il datore di lavoro ha infatti l’obbligo di stabilire degli standard di minima per proteggere i suoi lavoratori in base al Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), ma se qualcuno ritiene di doversi proteggere maggiormente (es. donna in gravidanza, stato di immunodepresione, o altre ragioni) è libero di farlo nel rispetto delle risorse dell’azienda, dei compiti che deve svolgere (tempi e modi) e della sicurezza complessiva propria de degli altri lavoratori.E veniamo dunque al protocollo. Nei documenti tecnici regionali (es. Nuovo coronavirus (SARS-CoV-2)Istruzioni Operative per la Sorveglianza del Personale del Sistema Sanitario Regionale – Regione Veneto) si ritrova di fatto tradotto esattamente quanto indicato dal documento del WHO “Rational use of personal protective equipment for coronavirus disease 2019 (COVID-19)” del 27 febbraio scorso.[4]Tale documento prevede molti distinguo sull’uso dei DPI ed in particolare riguardo le mascherine, indica in diverse situazioni che non sono necessaire. Secondo quanto riferitomi da un collega dell’OMS, esso è stato elaborato partendo dal presupposto che le persone asintomatiche e pauci sintomatiche molto difficilmente riescono a trasmettere la malattia. (A differenza dell’articolo del Lancet sopracitato).Tuttavia, oggi, di fronte a moltissimi operatori sanitari infettati in Italia (e ancor di più entrare in quarantena tanto che molti reparti sono stati costretti a chiudere), si impone una riflessione seria sul fatto che ci sia qualcosa che non va nella protezione del personale. Tutto questo personale infettato non è dovuto “solo” dalla carenza di DPI che non ha consentito di applicare il protocollo. La maggior parte dei “grandi contagi” li hanno causati pazienti pauci-sintomatici. La storia di moltissimi episodi tristemente ripetutisi in molti ospedali del nord è quella di pazienti entrati in ospedale per altri motivi, cui non si era inizialmente sospettato il coronavirus perché non avevano particolari sintomi suggestivi. Essi, solitamente anziani, si sono aggravati nei giorni successivi e quindi è stato pensato e diagnosticato il coronavirus. Nel frattempo avevano infettato un numero elevato di professionisti e talvolta anche di altri pazienti. A riprova di ciò vi è il fatto che i reparti coinvolti da questi importanti focolai epidemici sono stati principalmente quelli non in prima linea per la gestione dei casi di coronavirus: medicine interne, geriatrie, ginecologie e ostetricie, neurologie, ecc. Tutti reparti che da protocollo OMS non prevedevano l’uso universale di mascherine e delle altre protezioni da parte del personale. Quindi tutte queste infezioni ci sarebbero state lo stesso anche con la disponibilità di DPI.Lo stesso per i Medici di Medicina Generale: molti si sono infettati da pazienti che avevano visitato per altri motivi clinici e dai quali, secondo il protocollo OMS, non dovevano proteggersi.Poi ovviamente ci sono tutti gli infettati perché lasciati a gestire casi sintomatici e altamente sospetti senza protezioni. Ma siamo di fronte a due problemi diversi e tristemente complementari.Ad oggi non vi è alcun dato comunicato ufficialmente sul numero di operatori sanitari infettati e nemmeno di quanti siano in quarantena. Negli ultimi giorni praticamente tutti i Sindacati dell’area sanitaria hanno continuato a denunciare l’enorme numero di personale infettato, la carenza di dispositivi e l’inerzia delle Istituzioni nel renderli disponibili.Se stiamo perdendo drammaticamente preziosissimo personale sanitario perché si infetta significa che quello che stiamo facendo è sbagliato. È illogico proteggere poco il personale sanitario esistente (già formato e con esperienza) e poi fare i bandi di assunzione urgenti di nuovo personale inesperto. È illogica la corsa forsennata ad acquistare respiratori se poi ci si troverà senza personale per assistere i pazienti (oppure con molti di quei nuovi respiratori occupati da personale sanitario infettato).In qualsiasi situazione di emergenza in cui c’è qualcuno da salvare la regola base è non far morire/ferire chi interviene per aiutare.Quindi se vogliamo salvare il nostro personale dobbiamo fare urgentemente due cose: scrivere un nuovo protocollo aumentando i livelli di protezione e adoperarci seriamente per avere i DPI in quantità adeguate. Grazie alla mobilitazione attraverso il collega a Ginevra si sono messe in moto discussioni all’OMS ma intanto mi è arrivata in merito una risposta interessate: “Le raccomandazioni del WHO a riguardo devono essere intese come standard minimi e quindi è assolutamente legittimo che gli Stati in base alla loro valutazione dei rischi le alzino”.Quindi sarebbe logico che tutto il personale sanitario delle zone ad alta endemia in Italia lavori indossando una mascherina chirurgica e occhiali protettivi in tutti i setting sanitari. Le FFP2 devono essere sempre indossate da parte del personale della rete emergenza, trasporto pazienti, PS, radiologia, ed ovviamente infettivi e terapie intensive (più camice idrorepellente e occhiali protettivi). Nelle stesse aree geografiche tutte le persone che entrano in qualsiasi struttura sanitaria devono indossare a loro volta una mascherina chirurgica (con le eccezioni per i pazienti che non sarebbero in grado di sopportarla). Nelle aree del Paese ancora a media e bassa endemia si può ancora applicare quanto previsto dall’attuale protocollo ma appena la trasmissione comunitaria si alza è necessario passare a proteggere tutto il personale come descritto sopra.Anticipo già la critica: “Questi presidi di protezione, mascherine in primis, non si trovano e quindi sarebbe un protocollo inapplicabile”. Certo se ci muoviamo come abbiamo fatto sino ad ora non sarebbe applicabile perché il procurement per vie normali di mascherine è troppo lento rispetto ai bisogni. Tuttavia dipende molto da quanta pressione i nostri politici sapranno mettere in atto: siamo il secondo Paese al mondo per numero di infezioni e per numero di morti e il trend è ancora in crescita. Credo che al mondo siano in molti disposti a darci un aiuto concreto inviandoci DPI (Stati che possono permettersi di aspettare nuove forniture per qualche settimana e intanto inviarci le loro scorte). Dobbiamo anche mettere in atto “pensieri laterali” come avvenuto dal Governatore Rossi in Toscana con l’idea di produrre in loco mascherine di tessuto-non-tessuto per far fronte almeno alla carenza di quelle chirurgiche.Come ultima considerazione vorrei infine sottolineare che in tutto questo si è dimenticato del tutto l’aspetto motivazionale ed emotivo del personale sanitario che in una situazione di enorme sovraccarico di lavoro e di stress ha dovuto e deve preoccuparsi sopra ogni limite accettabile anche di rischiare di ammalarsi. Personale sanitario che presenta caratteristiche umane (strano a dirsi!) e quindi pensa ai propri familiari a casa cui non vuole portare l’infezione, al collega già infetto e trasferito in terapia intensiva, al virus che sa bene non uccidere solo pazienti anziani fragili. Anche su questo la letteratura è chiara: in queste situazioni bisogna fare di tutto per ridurre la probabilità di burn out degli operatori. E la percezione di essere protetti dall’infezione è il primo punto per andare nella giusta direzione.
Claudio Beltramello
Medico specialista in Igiene, è consulente e formatore nell’ambito del miglioramento della qualità ed organizzazione dei Servizi Sanitari.
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