Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

Riflessioni sull’oggi

Postato il 13 Dicembre 2013 | in Italia, Lavoro Privato, Lavoro Pubblico, Scenari Politico-Sociali, Sindacato | da

Stando ai dati ufficiali il numero dei lavoratori autonomi si è fortemente ridotto negli ultimi anni, del resto basterebbe vedere le migliaia di aziende a gestione familiare che chiudono i battenti per la crisi.

In Italia, il lavoro autonomo non è riconducibile ad un’unica origine, ci sono grosse differenze anche in base alle Regioni, alla composizione sociale delle stesse, ai distretti industriali e alle aree cosiddette produttive.

Il numero delle imprese con meno di tre addetti negli ultimi 20 anni è cresciuto e questo nanismo industriale è anche tra i fattori di crisi del modello produttivo italiano che per un ventennio ha scelto la strada della delocalizzazione basandosi spesso sulla forte contrazione del costo del lavoro come fattore di competività dimenticando gli investimenti tecnlogici e innovativi.

Sono circa 5,5 milioni gli addetti in “imprese” con meno di 3 dipendenti e questo rapporto di lavoro, anche quando si è celato dietro le partite iva ha rappresentato una forma di lavoro dipendente altamente sfruttato (e qualche volta autosfruttato).

La crisi della piccola impresa va di pari passo non solo con la crisi del modello produttivo italiano ma con i tagli della pubblica amministrazione, il cui ruolo di welfare è stato fortemente ridotto e subirà colpi ancora più decisivi nei prossimi mesi\anni e non solo con la seconda fase della spending review ma attraverso i tagli ai servizi, agli organici e la complessiva ridefinizione del pubblico.

Anni fa un Governo annunciò tempi celeri per il pagamento dei creditori della Pa, questo intento è rimasto disatteso e i creditori sono spesso costretti a chiudere bottega, ciò accade nel territorio pisano per attività che ruotano attorno all’Università e all’ospedale, costretti a interminabili e costose scartoffie solo per partecipare ad alcuni bandi.

Questa premessa è necessaria per capire il cosiddetto movimento dei forconi su cui i media stanno azzardando analisi che di oggettivo hanno ben poco, dettate da paura.

Ha sicuramente ragione la Cgia di Mestre a individuare nel crollo delle partite iva una delle cause dell’attuale malessere.

Dal 2008 hanno cessato l’attività 415 mila autonomi. Crollo dei lavoratori in proprio: ovvero artigiani, commercianti e agricoltori: -345.000. Particolarmente critica la situazione in Sardegna e in Calabria. Sulle micro imprese pressione fiscale media attorno al 50 per cento…………la crisi ha colpito in maniera più evidente il mondo delle partite Iva rispetto a quello del lavoro dipendente. In termini assoluti, la platea dei subordinati ha perso 565.000 lavoratori, mentre in termini percentuali è diminuita solo del 3,2 per cento, con una quota del numero dei posti di lavoro persi sul totale della categoria pari al 3,3 per cento. Tassi, questi ultimi, che sono meno della metà di quelli registrati dai lavoratori indipendenti”.

Analizzando tutti i profili professionali che costituiscono il cosiddetto popolo delle partite Iva, si nota che la contrazione più significativa è avvenuta tra i lavoratori in proprio: vale a dire tra gli artigiani, i commercianti e gli agricoltori. In questi ultimi cinque anni e mezzo sono diminuiti di 345.000 unità, pari ad una contrazione del 9,6 per cento.

Ma piaccia o non piaccia il movimento dei forconi, o sedicente tale, non può ridursi al movimento del lavoro autonomo di seconda e prima generazione per quanto la sua crisi sia tra i fattori scatenanti.

Uno sguardo attento e non superficiale deve andare alle fabbriche, alle condizioni materiali di vita e di lavoro degli operai, a come sono state distrutte le istanze più avanzate degli anni settanta a colpi di licenziamenti, di cassa integrazione, di regole sulla rappresentanza costruite ad arte per escludere i sindacati di base, al costante ricatto a cui sottopongono lavoratori\trici minacciati di perdere il posto e con esso ogni forma di sostentamento.

Una riflessione dovrebbe andare alle condizioni di sfruttamento di tanti lavoratori e lavoratrici del terzo settore, la loro frammentazione in contratti sempre più iniqui, alla loro divisione costruita ad arte per stroncare sul nascere ogni protesta organizzata.

Altro ragionamento va alla pubblica amministrazione e alle ragioni per le quali nonostante 5 anni di blocco contrattuale e la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro non siano sorti adeguati e significativi movimenti di lotta.

La crisi della rappresentanza e la crisi sociale sono alla base di proteste che vedono protagonisti proletari delle periferie (analogie con le banlieu francesi), studenti per i quali il futuro è sempre più incerto per la crisi del mercato del lavoro, disoccupati e cassa integrati abbandonati al loro destino di miseria e disperazione da un sindacato il cui ruolo si limita a gestore delle pratiche per gli ammortizzatori sociali, sindacato di servizio incapace di incidere realmente sui processi in atto.

E qui il sindacato tradizionale gioca un ruolo nefasto, quello di dividere quanti hanno un lavoro, per quanto malpagato e precario sia, e chi invece è senza lavoro, senza reddito e senza speranza.

La protesta ha preso corpo con il tam tam del web, con i network strumento sempre più necessario per una organizzazione che non è più solo virtuale.

Dentro queste piazze si trovano anche i fascisti che cercano di cavalcare un malessere sociale nascondendosi dietro a sigle minori di autotrasportatori, ma allo stesso tempo nella piazza ligure o veneta trovi anche il migrante, il pensionato, lo studente, il giovane disoccupato. Se i fascisti possono avere avuto qualche ruolo negli scontri di piazza, di fronte ad una mobilitazione ampia saranno costretti a fare un passo indietro e già lo stanno facendo.

Non dimentichiamoci che un mese fa decine di migliaia di uomini e donne sono scesi in piazza con i movimenti dell’abitare, una protesta forte e radicata nelle metropoli dove l’emergenza abitativa si fonde con l’assenza di lavoro e di reddito.

La protesta di questi giorni e soprattutto quella degli autoferrotranvieri ci inviano un messaggio molto chiaro:le tradizionali forme di lotta non sono più sufficienti, gli scioperi sono efficaci quando non rispettano le regole dettate dalle normative antisciopero, quando vedono protagonisti lavoratori che mettono in discussione le regole attuali rischiando sulla loro pelle sanzioni e denunce. Ma allo stesso tempo, sarebbe stupido negare che senza forme di rappresentanza efficaci queste proteste vengono gestite e strumentalizzate dai sindacati tradizionali, dai confederali e dagli autonomi complici delle normative antisciopero e delle privatizzazioni che oggi vanno investendo il servizio pubblico sociale.

Oggi più che mai è prioritario non solo comprendere quanto accade nel paese ma anche dotarsi di strumenti organizzativi perchè le lotte, anche le più radicali, non siano vanificate e tradite dai sindacati filo padronali e filo governativi.

E da qui un sindacato di classe e conflittuale dovrebbe ripartire…

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