Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

Tempo tuta è tempo di lavoro

Postato il 24 Febbraio 2014 | in Lavoro Privato, Lavoro Pubblico, Sindacato | da

Prendiamo una delle numerose sentenze di Cassazione sull’argomento, la n. 1817 del febbraio 2012, che interviene sull’annoso tema del “tempo tuta” necessario per il dipendente per il cambio degli abiti per l’attività lavorativa.

La sentenza definisce l’orario di lavoro e spiega bene che tutto il tempo necessario per vestizione rientra nell’orario di lavoro retribuito.

“rientra …. nell’orario di lavoro il tempo in cui il lavoratore è al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.

I padroni possono prendere la palla al balzo e stabilire tempi rigidi ai quali attenersi pena procedimenti disciplinari a carichi dei lavoratori, ma attenzione che il tempo di lavoro è misurato con con l’orologio di stabilimento, quindi fa fede l’entrata in servizio e un tempo congruo per spogliarsi e recarsi sul luogo di lavoro.

I periodi di tempo necessari ad indossare tuta e DPI e a percorrere l’itinerario endoaziendale tra lo spogliatoio e il reparto e viceversa (la fine del lavoro e il tempo di spogliarsi e indossare abiti civili) sono orario di lavoro.

La sentenza:

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 febbraio 2012, n. 1817 – Fatto e diritto

1. L’I. spa chiede l’annullamento della sentenza non definitiva della Corte d’appello di Genova, che, in parziale riforma della decisione di primo grado, l’ha condannata a corrispondere ai lavoratori che la convennero in giudizio il compenso dovuto, a titolo di lavoro straordinario, per il tempo necessario per indossare la tuta da lavoro e i dispositivi di protezione individuale (DPI), nonché per recarsi dallo spogliatoio al reparto e viceversa.

2. I lavoratori hanno notificato e depositato controricorso, proponendo ricorso incidentale condizionato. Entrambe le parti hanno depositato una memoria per l’udienza. La difesa della società ha anche depositato note di replica alle conclusioni del PG.

3. Con il primo motivo la società denunzia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1, 3 e 6 del rdl n. 692 del 1923, dell’art. 5 e 10 del rd n. 1955 del 1923. della direttiva CEE 104/1993, nonché degli artt. 1 e 8 d .lgs n. 66 del 2003”. La tesi prospettata è che l’orario di lavoro debba intendersi limitato al tempo della effettiva prestazione lavorativa ed eventualmente ai tempi precedenti e/o successivi ma solo se, durante questi ultimi, al lavoratore sia richiesto lo svolgimento di attività dirette e controllate dal datore di lavoro quanto a modalità e tempi di esecuzione, con effettiva disponibilità alla prestazione da parte del lavoratore e potenziale assoggettamento di quest’ultimo al potere direttivo, di controllo e disciplinare dello stesso datore di lavoro. La società sostiene che la sentenza abbia violato le norme su indicate per aver ritenuto che rientrino nell’orario di lavoro il tempo speso dai lavoratori per indossare e dismettere la tuta e i dispositivi dì protezione individuale, nonché il tempo speso dai medesimi per percorrere il tragitto dallo spogliatoio al reparto e viceversa, pure in mancanza, durante tale arco temporale, di alcun potere direttivo, di controllo e disciplinare da parte del datore di lavoro I..

4. Con il secondo motivo la società denunzia violazione e falsa applicazione del ceni aziende metalmeccaniche pubbliche aderenti all’Intersind del 9 luglio 1994. nonché del ceni metalmeccanici privati del 5 luglio 1994 e 8 giugno 1999. Il quesito di diritto, posto è se sia consentito alle parti stipulanti un contratto collettivo considerare nell’orario di lavoro retribuibile soltanto il tempo della effettiva prestazione in reparto, con esclusione di tutti i tempi precedenti e/o successivi a quest’ultima, impiegati dal lavoratore per lo svolgimento di attività meramente preparatorie e strumentali e se sia legittima la scelta delle parti stipulanti il ccnl Intersind e ceni metalmeccanici privati di limitare l’orario di lavoro e la retribuzione al solo tempo della effettiva prestazione misurata con l’orologio di reparto, con esclusione quindi del tempo tuta e del tempo percorrenza.

5. Prima di esaminare le tesi critiche della società ricorrente è opportuno delineare con precisione il tema controverso. I lavoratori avevano chiesto che fosse considerato nel loro orario di lavoro “il tempo impiegato per coprire il tragitto dal varco di accesso allo stabilimento al reparto e viceversa”. L’I. considera, invece, tempo di lavoro esclusivamente quello dall’inizio alla fine dell’attività nel reparto. Il giudice, accogliendo solo in parte la domanda dei lavoratori, ha indicato una soluzione intermedia, non considerando tempo di lavoro quello impiegato per andare dall’accesso allo stabilimento sino allo spogliatoio, ma considerando invece il tempo necessario alla vestizione, nello spogliatoio, della tuta e dei dispositivi di protezione individuale, nonché il tempo di percorrenza dallo spogliatoio al reparto. Il tutto si ripropone in senso inverso, includendo nell’orario il tempo di percorrenza dal reparto allo spogliatoio e di svestizione della tuta e dei dispositivi di protezione, senza invece considerare il tempo di percorrenza dallo spogliatoio all’uscita dello stabilimento (i tempi sono stati quantificati dalla Corte d’appello nella misura che più avanti si vedrà). La soluzione della Corte di merito è conforme alla legge.

6. Non è in discussione che i lavoratori in questione devono necessariamente lavorare indossando la tuta e i dispositivi di protezione individuale. Se quella della tuta è una scelta aziendale, i dispositivi di protezione individuale (DPI) rientrano tra le “misure” che, ai sensi dell’art. 2087 cc, il datore di lavoro deve adottare per tutelare l’integrità fisica del lavoratore (in questo caso misure specificamente individuate dagli artt. 377 e 379 del dpr 547 del 1955 e dagli artt. 40, 43 e 44 d. Igs. n. 626 del 1994). Le disposizioni aziendali in materia, espresse o implicite, rientrano nell’ambito del potere direttivo del datore di lavoro. Se un lavoratore pretendesse di svolgere le sue mansioni in reparto senza aver indossato tuta e dispositivi di protezione sarebbe esposto al potere disciplinare dell’I.. Di conseguenza, indossarli è un obbligo per i lavoratore e svolgere le relative operazioni fa parte della prestazione cui egli è tenuto nei confronti del datore di lavoro.

7. Non è ipotizzabile che i lavoratori possano effettuare queste operazioni prima di recarsi sul posto di lavoro. La Corte d’appello, con una valutazione di fatto compiutamente motivata, ha giudicato materialmente impraticabile la soluzione di percorrere il tragitto da casa all’azienda con indosso la tuta e i dispositivi di protezione ed ha evidenziato che tuta e DPI sono nel caso specifico beni aziendali, che non possono essere portati fuori dell’azienda senza una specifica disposizione dell’imprenditore; disposizione che non risulta essere stata impartita.

8. Quindi, si è in presenza di operazioni imposte da un obbligo interno al rapporto di lavoro, che deve essere eseguito utilizzando dispositivi di proprietà aziendale, scelti e prescritti dal datore di lavoro, in adempimento, a sua volta, di obblighi derivantigli dalla legge, e deve essere eseguito nei locali aziendali. Non è discutibile, di conseguenza, la soggezione del lavoratore nell’adempimento di tali obblighi al potere direttivo e disciplinare dell’imprenditore. Tali operazioni sono esecutive di una prescrizione datoriale e se il lavoratore non le compie è soggetto a responsabilità disciplinare. Si è pertanto all’interno dei poteri direttivi, di controllo e disciplinare del datore di lavoro.

9. La circostanza che l’impresa non abbia adottato prescrizioni sui tempi entro i quali compiere tali operazioni non modifica il quadro. L’azienda avrebbe potuto dare direttive sul punto e in ogni caso avrebbe potuto legittimamente considerare come tempo di lavoro, e conseguentemente retribuire, solo quello necessario a compiere tali operazioni. E’ ciò che ha fatto la Corte di merito, quantificando analiticamente i tempi (per spogliarsi dai vestiti civili ed indossare la tuta e gli altri dispositivi di protezione sono stati calcolati 5 minuti; il tempo necessario per percorrere la distanza tra lo spogliatoio e i diversi reparti è stato calcolato, per ciascun lavoratore, tenendo conto della distanza da coprire procedendo ad una andatura di 4 Km/h; tempi identici sono stati calcolati per il percorso inverso).

10. La ricostruzione del sistema normativo che include nell’orario di lavoro effettivo e retribuibile tali segmenti di tempo non viola le molteplici disposizioni dell’Unione europea, della legislazione italiana e della contrattazione collettiva indicate dalla società ricorrente.

11. Quanto alla normativa europea deve precisarsi che la materia dell’orario rientra nell’ambito del diritto dell’Unione limitatamente ai profili incidenti sulla salute e la sicurezza dei lavoratori, quindi limitatamente alla previsione di limiti massimi alla durata della prestazione. I profili retributivi dell’orario di lavoro rientrano invece nella competenza esclusiva del legislatore nazionale. L’affermazione è condivisa anche dalla Corte di giustizia dell’UE, che, con l’ordinanza 4 marzo 2011, emessa nella causa C-258/10, Grigore e. Regia nazionala a Padurilor RomsI., esaminando l’orario di lavoro di una guardia forestale rumena, ha precisato che la direttiva 2003/88 (ma il discorso vale anche per le direttive precedenti) “deve essere interpretata nel senso che l’obbligo del datore di lavoro di versare le retribuzioni e gli emolumenti analoghi per il periodo durante il quale la guardia forestale era tenuta a garantire la sorveglianza della particella boschiva di cui era responsabile dipende non da detta direttiva, ma dalle pertinenti disposizioni del diritto nazionale”.

12. Le disposizioni del diritto italiano che incidono sulla materia, considerato il periodo oggetto della controversia, sono, per la prima parte, quelle dettate dal r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692 e dai suoi regolamenti di attuazione, per la seconda parte quelle del d.Igs. 8 aprile 2003, n. 66.

13. La normativa del 1923 considerava lavoro effettivo quello che richiede un’applicazione assidua e continuativa ed escludeva da tale ambito occupazioni discontinue o di semplice attesa o custodia, stabilendo che queste ultime occupazioni potevano pertanto superare i limiti massimi temporali fissati dalla legge. Il regolamento di attuazione per le imprese industriali, emanato con r.d. n. 1955 del medesimo anno, precisava (art. 5) che non si considerano come lavoro effettivo: 1) i riposi intermedi che siano presi sia all’interno che all’esterno dell’azienda; 2) il tempo impiegato per recarsi sul posto di lavoro; 3) le soste di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione all’operaio o all’impiegato. Anche questa normativa non è finalizzata a stabilire qual è il tempo di lavoro retribuibile, bensì a fissare i limiti massimi della durata del lavoro, tanto che in taluni casi riposi e pause sono retribuiti. Comunque, nel considerare le fasi prodromiche, il regolamento si limita ad escludere il tempo impiegato per recarsi sul posto di lavoro, il che coincide con la conclusione della sentenza impugnata che non solo ha escluso quel tempo, ma ha escluso anche il tempo necessario per recarsi, una volta entrati in azienda, sino allo spogliatoio, e viceversa.

14. Più complessa è l’analisi del decreto legislativo del 2003, che riprende, alla lettera, dal diritto europeo la definizione di orario di lavoro, ponendola peraltro alla base di una disciplina che va al di là dei limiti tematici del diritto dell’Unione. La definizione è così formulata: “Agli effetti delle disposizioni del presente decreto si intende per a) “orario di lavoro” qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.

15. Rientra pertanto nell’orario di lavoro il tempo in cui il lavoratore è al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni. La formula è ampia: la dizione “attività ‘ò funzioni” indica una volontà legislativa di considerare non solo l’attività lavorativa in senso stretto, ma un concetto più flessibile ed esteso, che sicuramente integra operazioni strettamente funzionali alla prestazione. Peraltro, nello svolgimento di tali operazioni è necessario che il lavoratore sia “a disposizione” del datore di lavoro, cioè soggetto al suo potere direttivo e disciplinare. Tutte queste circostanze, come si è visto, sussistono nel caso in esame.

16. Per mera esigenza di completezza, dato che, come si è detto, i profili della materia esaminati in questa sede non rientrano nel diritto dell’UE, deve ricordarsi che il carattere ampio della formula legislativa utilizzata dal legislatore italiano è stato sottolineato anche dalla Corte di giustizia dell’UE. Interpretando la direttiva in cui la definizione di orario di lavoro ripresa dal legislatore italiano nel 2003 venne originariamente proposta, la Corte di giustizia ne ha esteso la portata anche ad alcune situazioni di attesa e di mera disponibilità, ritenendo necessario interpretare estensivamente la nozione di orario di lavoro (cfr., in particolare. Corte di giustizia dell’Unione europea, 3 ottobre 2000, C-303/98, Sindacato de medicos de asistencia pubblica (Simap) e. Conselleria de sanitad y consumo de la Generalidad Valencianà), nonché 9 settembre 2003, C-151/02, Landenshauptstadt Kiel e. Jeager).

17. Deve escludersi, infine, che l’interpretazione della Corte d’appello violi le previsioni dei contratti collettivi dei metalmeccanici per cui “sono considerate ore di lavoro (e quindi retribuirli) quelle di effettiva prestazione.

18. Sul punto questa Corte si è già espressa in più occasioni. In alcune controversie ex art. 420-bis, c.p.c, tali clausole erano state dichiarate nulle per contrasto con la disciplina legale inderogabile in materia di orario di lavoro. Le decisioni sono state cassate, censurando i giudici di merito “per non aver esitato a dichiararne la nullità senza chiedersi se tale risultato avrebbe potuto essere evitato attribuendo a tali clausole una diversa interpretazione: se cioè, in analogia a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla disciplina legale dell’orario di lavoro, siano da ricomprendere nella nozione di lavoro “effettivo”, come tali da retribuire, anche le attività preparatorie dello svolgimento dell’attività lavorativa, sempre che siano eterodirette dal datore di lavoro”. Si è aggiunto “che analogo criterio interpretativo andrebbe adottato anche in presenza di operazioni successive alla prestazione che rivestano le medesime caratteristiche di quelle preparatorie” (Cass. 8 aprile 2011, n. 8063, ma v. anche, Cass. 10 settembre 2010, n. 19358)

19. La società ricorrente ripropone anche la questione relativa al fatto che i medesimi contratti collettivi dei metalmeccanici identificherebbero l’orario con le ore di lavoro contate con l’orologio marcatempo del reparto. La sentenza impugnata non viola il contratto collettivo neanche sotto tale profilo, perché la clausola in questione non impone affatto di contare le ore con l’orologio di reparto, ma consente di farlo anche con l’orologio di stabilimento. Più i n radice, deve sottolinearsi che quella individuata dal contratto è una mera tecnica di rilevazione dell’orario di ingresso e di uscita dalla stabilimento o dal reparto, ma non ha potere di qualificazione del tempo di lavoro effettivo (Cass. 2 luglio 2009. n. 15492).

20. Quanto già detto comporta il rigetto anche del terzo motivo, con il quale si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cpc e dell’art. 2697 cc perché non sarebbe stato adempiuto l’onere, posto a carico dei lavoratori, di dimostrare che “nei singoli tempi in cui si trovavano all’interno dello stabilimento senza essere impegnati nello svolgimento di alcuna attività lavorativa, essi risultassero comunque effettivamente assoggettati alla eterodirezione datoriale dell’I.”. Si è già spiegato perché i periodi di tempo destinati ad indossare tuta e DPI e a percorrere l’itinerario endoaziendale tra lo spogliatoio e il reparto siano orario di lavoro e la valutazione della Corte d’appello in ordine alla adeguatezza della prova sul punto è assolutamente consequenziale.

21. Con il quarto ed il quinto motivo la società denunzia invece un vizio di motivazione, assumendo che mancherebbe, o sarebbe insufficiente, la motivazione della sentenza che “ha omesso di spiegare perché e in che modo dalla circostanza che il datore di lavoro abbia apprestato uno spogliatoio dovrebbe derivare automaticamente anche un obbligo del lavoratore di servirsene, secondo certe modalità e certi tempi”. La censura è inammissibile perché il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, cpc, deve riguardare un fatto controverso e decisivo. In questo caso la circostanza non è decisiva. Quella della Corte è una motivazione di contorno ed aggiuntiva per affermare la sussistenza di un obbligo in capo ai lavoratori di indossare tuta e DPI e di farlo non a casa, ma all’interno dello stabilimento. Come si è visto, tale obbligo ha un suo autonomo fondamento a prescindere dalla circostanza, meramente confermativa, che l’I. abbia apprestato a tal line uno spogliatoio aziendale.

22. Infondati sono anche i motivi proposti in via subordinata.

23. Con il sesto si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 cc e 1419 c.c. e 115 cpc, sostenendo che la nullità della clausola del contratto collettivo dei metalmeccanici in materia di orario di lavoro effettivo comporta anche, per il nesso di inscindibilità che collega le due previsioni, la invalidazione della disciplina del contratto collettivo in materia di straordinario. A prescindere dalla sussistenza o meno del vincolo di inscindibilità, il presupposto del ragionamento è errato perché, per le ragioni prima esposte, la clausola concernente l’orario di lavoro del ceni non è nulla. Analoghe considerazioni valgono per il settimo motivo, che poggia sulla medesima premessa.

24. Con l’ottavo motivo la società denunzia, in via ulteriormente subordinata, violazione della normativa in materia d’interruzione della prescrizione e relativo vizio di omessa o insufficiente motivazione. Sarebbe stata violata la disciplina sull’interruzione della prescrizione riconoscendo efficacia interruttiva all’istanza di convocazione presso la direzione provinciale del lavoro, comunicata all’I. a mezzo raccomandata, nella quale venne formulata una richiesta di pagamento del dovuto per lavoro straordinario, che la Corte ha ritenuto di contenuto specifico e idoneo a mettere in mora la società. Premesso che la motivazione sul punto non solo sussiste, ma spiega in modo adeguato le ragioni della decisione, il motivo di ricorso è inammissibile perché entra nel merito della valutazione della Corte in ordine al contenuto dell’atto e alla sua specificità, il che va oltre l’ambito del giudizio di legittimità.

25. Con il nono motivo si denunzia violazione dell’art. 112 cpc e dell’art. 2033 c.c., perché la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda di restituzione dell’incidenza del lavoro straordinario sulla tredicesima mensilità, riconosciuta in primo grado e negata in appello. Il motivo è generico e non è conforme al canone dell’autosufficienza perché ci si limita ad affermare che tale richiesta di restituzione sarebbe stata formulata “‘nella misura meglio quantificata in corso di causa”, ma non si specifica se, come, dove e in che entità tale richiesta sia stata effettuata. In ogni caso, dalla lettura della sentenza si evince che la Corte ha deciso sul punto e quindi non vi è violazione dell’art. 112 cpc.

26. Il ricorso principale, pertanto, deve essere rigettato. Il ricorso incidentale, essendo condizionato all’accoglimento del ricorso principale, rimane assorbito. Le spese, per legge, gravano sulla parte che perde il giudizio.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale. Condanna la società ricorrente a rifondere ai controricorrenti le spese del giudizio di legittimità, che liquida, nel complesso, in 30,00 euro, nonché 2.000,00 euro per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

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