Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

Un mininotiziario a Ferragosto…? Un 13 agosto di fuoco in Ecuador

Postato il 18 Agosto 2015 | in Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

MININOTIZIARIO AMERICA LATINA DAL BASSO

n.11/2015 del 10 agosto 2015

a cura di Aldo Zanchetta – aldozanchetta@gmail.com

Questi documenti sono diffondibili liberamente, interamente o in parte, purché si citi  la fonte

ECUADOR

UNA RIFLESSIONE AL DI LÁ DELLE CONTINGENZE DI UNA PODEROSA PROTESTA INVISIBILIZZATA DAI NOSTRI MEDIA

Cominciando con la visione di una immagine densa di contenuto perché rappresenta uno degli scenari che negli ultimi mesi si ripetono quasi quotidianamente in America Latina, sia dove  al potere ci sono governi di destra che dove ci sono governi detti “progressisti”: da una parte la gente, molta gente, dall’altra schieramenti impenetrabili di forze dell’ordine; da una parte una protesta sempre più drammatica e non violenta, dall’altra la repressione dei governi. Quello della repressione e della limitazione del diritto alla protesta che sta silenziosamente estendendosi anche in Europa, come la nuova incredibile legge spagnola. Siamo in pieno “stato di eccezione” diagnosticato da Giorgio Agamben.

QUITO 22 DE MARZO DE 2012. MARCHA INDIGENA POR EL AGUA. FOTOS API / JUAN CEVALLOS.

QUITO 22 DE MARZO DE 2012. MARCHA INDIGENA POR EL AGUA. FOTOS API / JUAN CEVALLOS.

Premessa – Il ciclo di proteste che sta movimentando il paese registra due momenti forti e in certo senso distinti ma non contrapposti: l’arrivo oil 13 a Quito della grande marcia indigena e lo sciopero generale proclamato sempre per dopodomani 13  da importanti sindacati. Le due diverse manifestazioni sono state concordate dai rispettivi organizzatori ma quella della CO.NA.IE. contiene in più una agenda specificatamente indigena che non contrasta ma va al di là dell’altra. Mentre le richieste della CO.NA.IE., la Confederazione indigena, sono riportate in calce, per una migliore comprensione di quelle della sinistra e dei sindacati consigliamo la lettura dell’intervista a Alberto Acosta, che fu candidato delle sinistre alle elezioni presidenziali del 2013. E’ reperibile sul blog :  www.camminardomandando.wordpress.com. Intanto la marcia è giunta ieri a Lacatunga dove la CO.NA.IE. ha ufficializzato la decisione della ‘sollevazione indigena’ e l’adesione allo sciopero generale.

Sui motivi politici delle proteste e sulla situazione economica del paese abbiamo già scritto e rimandiamo al sito www.kanankil.it, qui faremo riferimento all’agenda specificatamente indigena delle proteste.

La grande marcia indigena “della dignità e della vita” giunge oggi a Quito

La grande marcia indigena, partita il giorno 2 agosto scorso dal nord e dal sud del paese, arriverà il giorno 13 a Quito.. Grande la solidarietà lungo il percorso, grandi le aspettative, non sono mancate ovviamente anche le critiche. Ora si avvicina il momento cruciale..

Come reagirà (sta reagendo) il governo? Cercherà di impedire l’ingresso nella capitale? Accetterà, forse troppo tardi, di dialogare? Mentre scriviamo non abbiamo ancora risposta su questi interrogativi. Intanto un appello di personalità della cultura e di cittadini di vari paesi latinoamericani tenta di aprire la strada ad un dialogo fino ad oggi rifiutato da un Presidente arrogante, che forse ora tentenna di fronte a questa prova di forza inaspettata da questi indios [1]. Oggi, dopo averlo a lungo richiesto, sono gli indigeni, e la loro principale confederazione, la CO.NA.IE. a dire “troppo tardi”, il tempo è scaduto, non c’è più spazio per il dialogo. Che si dia corso al referendum revocatorio del Presidente, del suo Vice e dell’intero parlamento e alla convocazione di una nuova Assemblea Costituente.

La decisione degli indigeni è stata coraggiosa –secondo alcuni azzardata- data la grande popolarità di Correa che due anni or sono (2013) è stato confermato per il secondo e ultimo mandato presidenziale col 57,5% dei voti.  Una popolarità però calante, come hanno indicato le elezioni amministrative dello scorso anno, e molti nodi stanno venendo al pettine della politica governativa, quello ecologico, quello economico e quello finanziario, in particolare l’elevato indebitamento con la Cina.. Così alla protesta indigena si è unita quella degli ecologisti, di alcuni settori della sinistra e di consistenti componenti del mondo sindacale che ha proclamato per il 13 agosto uno sciopero generale nel paese.

Il mondo indigeno ecuadoriano, hanno fatto notare alcuni, non è stato compatto nella protesta e non tutti sono stati d’accordo sulla decisione della marcia. Alla vigilia di indirla, Ecuarunari prima, l’intera CO.NA.IE. poi, hanno sconfessato e preso definitivamente le distanze da Pachakuti, il cosiddetto braccio politico/partitico del movimento. E sappiamo che al di la delle tre grosse componenti della Confederazione, quella andina (Ecuarunari, la più battagliera), quella amazzonica (Confeniae) e quella della costa (Conaice) -talora fra loro in dissenso su specifiche questioni ma che hanno approvato unitariamente la marcia- vi sono alcune realtà minori che fanno storia a sé. Frutto questo anche delle politiche di cooptazione e di frammentazione, da sempre esercitate dai governi di tutte le latitudini verso le loro opposizioni.

Il mondo indigeno, una realtà complessa

Del resto la realtà indigena è molto complessa e frastagliata di per sé, in Ecuador come altrove, e si estende dalle ormai pochissime comunità ad oggi ancora ‘non contattate’, cioè isolate nel loro ambiente originario, fino agli indigeni che vivono nelle ostili periferie caotiche e misere delle città, disancorati per sempre dalle loro comunità originarie [2]. Un indio senza comunità è una persona smarrita. Una imprevista e sorprendente esperienza personale nel 2004 mi fece imbattere proprio a Quito con un gruppo di una quindicina di ragazzi indigeni fra i 14 e i 18 anni, intellettualmente vivaci e intraprendenti, che si erano messi insieme per ricercare la propria identità india e sfuggire così alla duplice emarginazione [3].

Un precedente testo in cui davo notizia di questa ‘sollevazione’ indigena, condotta del resto nel rispetto della legge ma senza tentennamenti, ha suscitato qualche protesta indignata: “Ma che pretendono questi indios da un governo progressista, di ‘sinistra’, che ha portato crescita economica, assistenza alla parte povera della popolazione, rafforzamento dello Stato?” Risulta difficile per molti comprendere come la resistenza indigena non sia riconducibile alle forme e ai contenuti della  ‘lotta di classe’ praticata in occidente e come essa contenga un “di più” tutt’altro che secondario: il diritto alla diversità di cosmovisione, cioè della visione del mondo e “del rapporto fra gli esseri umani, naturali e spirituali che lo conformano” (Grimaldo Rengifo). La resistenza di 5 secoli alla “ragione strumentale” occidentale continua.

Diversità di cosmovisioni ovvero di modo di concepire e relazionarsi col mondo

Le rivendicazioni portate avanti oggi in Occidente sono incentrate su un turbine di diritti da far rispettare o da far ancora riconoscere. Diritti in maggioranza di tipo individuale, dei quali si esige che sia lo Stato a farsi garante ed erogatore, quello Stato che, secondo la tradizione di sinistra,  si sarebbe dovuto alla fine “dissolvere” nella società socialista e che invece così viene investito di nuove responsabilità e quindi dotato di nuova legittimità.

Sobriamente Gandhi, un indigeno anche lui, interpellato per contribuire all’elaborazione della Carta dei Diritti dell’Uomo del 1948, rispose;

Ho imparato da mia madre, illetterata ma molto saggia, che tutti i diritti degni di essere meritati e conservati sono quelli dati dal dovere compiuto. Così, lo stesso diritto alla vita ci viene soltanto quando adempiamo al dovere di cittadini del mondo. Secondo questo principio fondamentale, è probabilmente abbastanza facile definire i doveri dell’Uomo e della Donna e collegare ogni diritto a un dovere corrispondente che conviene compiere in precedenza. Si potrebbe dimostrare che ogni altro diritto è solo un’usurpazione per cui non val la pena di lottare. (Tratto da I diritti dell’uomo, Testi raccolti dall’Unesco, ed. di Comunità, 1952, pag 23)

Ci sono voluti 60 anni dalla Dichiarazione del 1948, di cui 20 di estenuanti trattative in sede ONU, perché nel settembre 2007 venisse alfine approvata una Dichiarazione sui Diritti (Comunitari) dei Popoli Indigeni [4], basata su una diversa cosmovisione, propria a tutti i popoli indigeni del mondo (stimati in 300 milioni di persone nel mondo), che si considerano parte integrante della natura e non suoi “dominatori”. Nel caso specifico dei popoli andini, Eduardo Grillo Fernandez scrive: ” … il modo di essere e di vivere del popolo andino e della sua cultura è l’eterogeneità, la variabilità, la dinamicità. Non c’è nulla di più lontano dalle pretese di omogeneizzazione e di normalizzazione universale” [5] proprie del pensiero filosofico e scientifico occidentale.

La Dichiarazione del 2007 non è vincolante per gli Stati firmatari ma solo uno stimolo a tradurre nelle Costituzioni e nelle legislazioni nazionali i suoi contenuti. Averla sottoscritta non significa obbligarsi a  applicarla con una legislazione ad hoc.

Un inciso. In un incontro con la Commissione per i Diritti Umani del Senato, ottenuto tramite l’allora senatore Martone che ne faceva parte, all’epoca dei governi Berlusconi nel 2006, agli indigeni che mi accompagnavano venne chiesto, per la ‘dignità’ (sic) del luogo, di avere giacca e cravatta (eravamo stati preavvisati), Il presidente della Commissione, gentile nei modi e amabile nel parlare, concluse la l’incontro affermando che l’Italia non aveva necessità di procedere ad una ratifica parlamentare della Dichiarazione sottoscritta perché nel nostro paese non esistevano indigeni. Rassicurate così le nostre multinazionali, da ENI a ENEL a Benetton, nelle loro scorribande nei paesi del ‘sud’, dove non sono tenute a rispettare in trasferta leggi nazionali sul tema, inesistenti.

L’autonomia territoriale perno della resistenza indigena

Nel mondo indigeno l’organizzazione sociale non è basata sulla verticalità ma sull’orizzontalità, gli incarichi sociali (cargos) sono un servizio gratuito esercitato a favore della comunità, per periodi di tempo definiti, secondo il principio del “comandare obbedendo”. I cargos vengono attribuiti per consenso assembleare e non per elezione competitiva, e affidati secondo una progressione di difficoltà crescente, e che possono essere revocati in caso di inadempienza.

La principale rivendicazione degli indigeni non è la terra bensì il territorio, quello ancstrale, dove poter organizzare la comunità in autonomia, secondo le proprie leggi e tradizioni (Usos y Costumbres), e consentire liberamente l’evolversi della propria cultura in sintonia con la propria cosmovisione. Sul territorio il rapporto con il mondo naturale è quello con una madre generosa, la Pachamama, che si rispetta e si onora  “consumandola” il meno possibile, perché come ha provveduto alla vita dei propri avi essa possa provvedere alla vita dei propri discendenti.

Altra rivendicazione, forte soprattutto nei paesi andini, è la “plurinazionalità” degli Stati, con il riconoscimento delle varie culture presenti al loro interno. In Ecuador, la Costituzione del 2008 affermò la plurinazionalità dello Stato, per poi negarla sfacciatamente nella legislazione emanata dal Parlamento, dove Correa detiene la maggioranza assoluta. Anzi facendo regredire quei diritti già precedentemente e duramente conquistati, come ad es. l’insegnamento bilingue.  Nella Costituzione si riconosceva l’esistenza nel paese di 14 diverse nazionalità e di 18 popoli indigeni, ma il governo Correa nel 2014, dopo aver eliminato il bilinguismo nelle scuole, ha chiuso l’Università Pluriculturale delle Nazionalità e Popoli Indigeni Amawtay Wasi, che era stata riconosciuta con legge dello Stato nell’agosto del 2004, cioè due anni prima dell’andata al governo di Correa.

È alla luce di questa cosmovisione che può essere compreso e giudicato il sollevamento indigeno contro il presidente Correa: la resistenza di un popolo che vuole continuare a esistere secondo la propria cultura e tradizioni.

Mondo indigeno e resistenza al capitalismo

La cosmovisione indigena, con la sua irrinunciabile dimensione comunitaria e con la sua economia di soddisfacimento di bisogni vitali e non di accumulazione, è intrinsecamente incompatibile con un’economia capitalista.

In uno dei quinquennali rapporti al Presidente sulle prospettive mondiali (Global Trends)  redatti dal National Intelligence Council (NIC) degli Stati Uniti, i popoli indigeni venivano individuati come il più serio ostacolo all’estensione del libero mercato a tutta l’America Latina (Global Trends 2020 [6]). Smantellare il principio del possesso comunitario delle terre, anche quando lavorate familiarmente, significa smantellare la base sociale della comunità. L’insurrezione zapatista del 1994 in Chiapas scoppiò perché con la modifica dell’art. 27 della Costituzione zapatista, le terre delle comunità non erano più dichiarate inalienabili e non ipotecabili. Esse, per l’Accordo di Libero Commercio del Nord America (NAFTA) fra Stati Uniti, Canada e Messico, dovevano essere liberi da ogni vincolo, e simbolicamente l’insurrezione scoppiò lo stesso giorno dell’entrata in vigore dell’Accordo.

Significativo quanto ha detto Jean Robert al recente semillero zapatista [7], parlando delle “spedizioni Bowman” che dal Messico stanno ora estendendosi ad alcuni paesi dell’America Centrale

Sotto il termine geoproperty (geo-proprietà) studiano le forme di possesso della terra nelle regioni indigene, per cui il progetto è noto in Messico col nome di México Indígena. Riconoscono una sola forma di possesso della terra, la proprietà privata. Le altre forme di possesso, come ad esempio la posesión, sono qualificate come «informali» e di conseguenza come «problema di sicurezza nazionale», in quanto con la loro propensione a promuovere l’auto-organizzazione costituiscono un pericolo per gli Stati Uniti. In alcuni documenti, ora ritirati dalla circolazione, l’attività principale del progetto México Indígena veniva definita come «gestione civile dell’informazione a sostegno di operazioni anti-insurrezionali>> [8].

Mondo indigeno, “sviluppo”, buen vivir

Il mondo indigeno latinoamericano ha avuto il suo momento di infatuazione per lo “sviluppo”, questo mantra dell’Occidente dal quale, dopo la triste esperienza fatta si va oggi liberando, secondo la profezia di Ivan Illich, che nel 1960, per quasi un anno, aveva risalito in larga parte a piedi il subcontinente dall’Argentina al Messico per avere della regione una conoscenza non libresca. A Robert Mc Namara al quale, dopo la debacle vietnamita, nominato Presidente della Banca Mondiale, venne affidato il compito di rendere concreto il progetto di “sviluppo” universale, Illich, forte dell’ esperienza fatta, rispose con uno scritto dal titolo La povertà pianificata [9]:

Quando il terzo mondo perverrà ad essere un grande mercato di prodotti di consumo (quelli che più elegantemente vengono chiamati <beni economici>) e delle tecnologie che i ricchi delle nazioni occidentali hanno inventato per proprio uso, la contraddizione su cui è basata la legge della domanda e dell’ offerta apparirà sempre più chiaramente. Non sono le automobili che porteranno i poveri nell’epoca degli aerei a reazione, le scuole non apriranno loro le porte dell’ educazione, i frigoriferi non offriranno loro cibi più sani.

Oggi il mondo indigeno di Abya Yala, o almeno le sue componenti più vitali e autonome, sha preso piena coscienza coscienza che il “vivere meglio” domani é il principale ostacolo per il “ben vivere” oggi e sta rivalorizzando i suoi vari “ben vivere” espressi in forme adeguate alle specifiche sensibilità etniche coi suoi vari sumak kawsay (mondo quechua) sumak kamaña (mondo aymara) etc. Scrive Acosta: Il buen vivir si presenta come alternativa radicale al capitalismo: propone una relazione nuova tra gli esseri umani e, fondamentalmente, una nuova relazione degli esseri umani con la natura. [10]

Rinascimento indigeno e crisi dell’Occidente

I popoli indigeni di Abya Yala [11] stanno vivendo, a partire dall’ultimo terzo del secolo XX, un significativo rinascimento del quale non possiamo per ragioni di spazio ripercorrere i momenti salienti, limitandoci tuttavia a segnalare le grandi contromanifestazioni del 1992 allorché l’Occidente ha celebrato i 500 anni della ‘scoperta’ dell’America nonché l’insurrezione zapatista maya del 1994 in Chiapas (Mx), una vera iniezione di autostima e di stimolo morale per tutti i popoli indigeni del subcontinente.

La nostra civiltà occidentale invece sta vivendo una crisi profonda, strutturale, che rischia di sprofondarci in un baratro. In un notevole dossier della rivista Interculture dal titolo : Visioni  del  mondo  in  collisione – La sfida dell’ingegneria genetica (Interculture , n.2, 2005), Scott Eastham, affrontando il delicatissimo e trascurato dibattito sull’ingegneria genetica, scrive:

Non siamo in grado di vedere il fondo dell’abisso che si apre davanti a noi. Ma se chiedessimo un piccolo aiuto invece di tuffarci alla cieca, se cominciassimo a guardare e ad ascoltare con attenzione (non solo le ultime ‘scoperte’ e le ultime previsioni della scienza moderna, ma tutte le altre modalità umane di conoscere e di essere, che oggi devono entrare nel dialogo sull’ingegneria genetica), allora potremmo davvero sentire voci provenienti da sponde lontane e riusciremmo a guardare gli uni agli altri come ad esseri umani che costruiscono ciascuno il proprio tipo di ponte per superare l’abisso incommensurabile fra l’oggi e il domani. (Scott Eastham, 2003) (Dialogo non solo sull’ingegneria genetica ma su tutte le questioni cruciali della civiltà nel suo complesso plurale; nota dello scrivente come pure il grassetto)

E’ ormai tempo che noi ci misuriamo con questo ineludibile appuntamento storico dell’incontro e del dialogo con le altre culture, prima della loro distruzione. Altre culture, ovvero altre cosmovisioni, esistono e resistono e con esse dobbiamo misurarci abbandonando l’ottusità della negazione e della violenza sopraffattoria del pensiero unico. Credo, anche per una loro modesta ma pregnante frequentazione diretta, che il loro sumak kawsay sia l’unica proposta di civiltà opponibile oggi alla distruzione capitalista del pianeta [12].

NOTE

[1] La parola indio è una parola offensiva perché per il bianco (o meticcio) che la usa significa pigro, incapace, bugiardo…. Oggi alcuni leader o studiosi la riassumono oggi come simbolo di lotta proprio contro quel mondo che la ha usata per ‘marchiarli’. Nel libro Noi, gli indios (Nova Delphi 2015) l’autore, Hugo Blanco, nella premessa scrive: “Raccolgo il termine indio per il titolo del libro. È l’appellativo dispregiativo usato contro di noi. È la frusta con cui ci colpiscono in volto. Raccolgo la frusta. Lo ritengo più appropriato invece di usare termini che ammorbidiscano o diminuiscano la portata dell’oppressione”. In questa accezione la assumiamo in questo testo.

[2] In realtà nelle periferie dove si trovano gruppi numerosi di indigeni della stessa etnia, si assiste alla ricostituzione di forme comunitarie, come ad es fra gli emigrati messicani negli Stati Uniti.

[3] Possiedo il filmato, fatto registrare da un mio compagno di viaggio: credo che finalmente dovrei trascrivere il colloquio.

[4] Con il voto contrario di Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda e una decina di astensioni.

[5] Cultura Andina Agrocéntrica, Pratec, Lima 1991. Edizione italiana: Cosmovisioni. Occidente e mondo Andino, Ediz.Museodei, 2015, pag.11

[6] “Nel sud del Messico, la regione andina ed alcuni paesi centroamericani, rivendicazioni territoriali spinte da gruppi indigenisti irredentisti potrebbero comprendere un scenario di insurrezione armata e violenza politica”, avverte il documento. “Anche l’emergenza di movimenti indigenisti politicamente organizzati può rappresentare un rischio per la sicurezza regionale. Se nei prossimi anni i movimenti di rivendicazione indigenista non ottengono inserimento nel sistema politico né determinati livelli di inclusione sociale, esiste la probabilità che molti movimenti evolvano verso rivendicazioni di tipo autonomistico territoriale nel sud del Messico, la regione andina ed alcuni paesi centroamericani”, cosa che minaccerebbe gravemente la “integrità territoriale” degli Stati. (Supplemento de La Jornada – Ojarasca n.96,  aprile 2005, traduz. del Comitato Chiapas di Bergamo).

[7] Seminario “Il pensiero critico di fronte all’Idra capitalista” , Chiapas 3-9 maggio 2015.

[8] Vedi l’intera relazione dal titolo La rigenerazione di un territorio da parte di un popolo sul sito www.camminardomandando.wordpress.com.

[9] Illich I., La pauvreté planifièe in Libérer l’avenir, Seuil, Parigi, 1971, pagg 153 ; il libro è stato riedito in Italia recentemente col titolo Rivoluzionare le Istituzioni, Mimesis, 2012.

[10]  Vedi: Buen vivir, intervista a Alberto Acosta, sul blog www.camminardomandando.wordpress.com

[11] Nome col quale il popolo Kuna dell’America Centrale chiamava le terre conosciute, adottato oggi dai popoli indigeni per denominare il continente americano.

[12] “La nozione di buen vivir (sumak kawsay), in quanto nuova condizione di contrattualità politica, giuridica e naturale, ha iniziato il suo percorso nell’orizzonte delle possibilità umane per mano dei popoli indigeni di Bolivia ed Ecuador”. (Pablo Davalos :  Reflexiones sobre el sumak kawsay (el buen vivir) y las y las teorías del desarrollo … www.alainet.org/es/active/25617).

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RATIFICA DEL NO AL DIALOGO COL GOVERNO E CONVOCAZIONE DI UNA ASSEMBLEA COSTITUENTE

La Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador –CONAIE- riunita nella sua Assemblea annuale a Salasaca (Tungurahua) nei giorni 17 e 18 luglio del 2015 con la partecipazione delle sue componenti regionali ECUARUNARI (Sierra), GONOAE-CONFENIAE (Amazonía) e CONAICE (Costa), di fronte alla congiuntura del paese e la situazione del movimento indigeno, ha deciso

– Convocare le basi dei popoli e nazionalità alla Grande Sollevazione indigena in unione coi settori sociali e il popolo ecuadoriano per il giorno 10 agosto, definendo con una agenda propria e ratificare con fermezza il No al Dialogo con il governo nazionale e donvocare una nuova Assemblea Costituente per costruire il vero Stato Plurinazionale.

– Frenare la spoliazione delle terre e dei territori che il Governo nazionale promuove con la Ley de Tierras, Aguas y Ley de Minerías. Pertanto promuoviamo l’archivio della Ley de Tierras e la deroga delle Leggi che danneggiano lo sviluppo e i Diritti dei Popoli Indigeni. Rafforzare il controllo dei nostri territori e non permettere l’ingresso di alcun funzionario governativo né ad alcuna impresa transnazionale.

– Implementare una agenda unitaria assieme ai settori sociali e organizzare i processi di mobilitazione che iniziano con la Marcia dei popoli in partenza da Tundayme (Zamora Chinchipe), il 2 di agosto, il  Levantamiento Indígena del 10 di agosto e lo Sciopero Nazionale del 13 di agosto. el Paro Nacional del 13 de agosto.

– Porre fine alla corruzione istituzionale e allo stato di repressione per costruire la Democrazia Plurinazionale.

– Arrestare la persecuzione politica e la incriminazione giudiziaria del Governo di Rafael Correa, contro i leader sociali, dei dirigenti dei popoli indigeni, degli studenti, dei medici, dei pensionati, dei difensori della natura, dei diritti umani e degli altri settori sociali organizzati.

– Archiviare la proposta delle Modifiche Costituzionali che promuove la restrizione dei Diritti che grazie alle lotte sono stati inclusi nella Costituzione.

Ratificare l’impegno pieno per sconfiggere il modello di economia capitalista basata sullo sfruttamento petrolifero e minerario potenziato da questo Governo

Consejo de Gobierno de CONAIE

EcuaChaski:-

(traduzione di A.Z.)

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