UNA TRIPARTIZIONE DELL’IRAQ?
di Pier Francesco Zarcone
Per quanto una situazione di estremo dinamismo, come quella irachena, induca ad astenersi da previsioni sui futuri sviluppi, tuttavia è possibile iniziare a decifrare – almeno in termini generalissimi – i cambiamenti imputabili agli eventi odierni riguardo alla situazione preesistente.
A breve o medio termine i possibili scenari di base sono due: nel primo i Jihadisti sunniti vittoriosi saldano i conti millenari con gli Sciiti, in un enorme bagno di sangue e causando immani devastazioni di un plurimillenario patrimonio culturale, impadronendosi di tutto l’Iraq e delle sue riserve energetiche. Uno scenario dalle conseguenze micidiali, ma difficilmente concretizzabile; e non già per le aspettative di un salvifico “arrivano i nostri” made in Usa, che probabilmente non ci sarà (almeno, così sembra). In uno scontro ormai palesemente intraislamico (cioè fra Sunniti e Sciiti) l’aspetto rilevante si incentra su alcuni elementi di fatto fra loro relazionati: la presenza maggioritaria sciita nella popolazione irachena, il concentramento degli Sciiti per lo più nel sud del paese, la contiguità dell’Iran con l’Iraq.
Gli Sciiti
Tutto ciò fa escludere che i jihadisti riescano a impadronirsi di una megalopoli come Baghdad (a maggioranza sciita), per non parlare del sud iracheno. Militarmente gli sciiti non sono affatto disarmati né privi di organizzazioni combattenti, che anzi ricevono addestramento e armamento dall’Iran. Sul campo sono operative due milizie sciite locali, armate, finanziate e assisite da Teheran: Kataib Hezbollah (Falange del Partito di Dio) e Asaib Ahl al-Haqq (Lega della Gente della Verità), che già hanno combattuto in Siria con le truppe di Bashar al-Assad, e ora stanno reclutando volontari nei centri sciiti iracheni contro i jihadisti. Anzi, elementi di Asaib Ahl al-Haqq già si sono scontrati a Fallujah contro i miliziani dell’Emirato Islamico dell’Iraq e del Levante (Dawlat al-Islaamiyya fii al-Iraq wa-l-Sham), e il gruppo sciita Liwa Abu Fadl al-Abbas (Brigata Abu Fadl al-Abbas) – originariamente costituito per combattere in Siria – si sta posizionando a Nord di Baghdad; vi sono poi le milizie dell’Organizzazione Badr (Luna piena). Secondo taluni media occidentali – nonostante le affermazioni di segno contrario del governo di Teheran – truppe iraniane sarebbero già in Iraq e avrebbero aiutato l’esercito iracheno a riprendere il controllo della maggior parte di Tiqrit. Il britannico Guardian del 15 giugno riportava di centinaia di volontari iraniani giunti in Mesopotamia, tra cui due battaglioni delle Forze Quds dei Pasdaran; inoltre 1.500 elementi dei Basij (paramilitari) avrebbero attraversato il confine nell’Iraq centrale il 13 giugno, e nella stessa data il Maggior-Generale Qasim Sulaymani, capo dei Quds delle Guardie Rivoluzionarie, sarebbe arrivato a Baghdad per supervisionarne la difesa. La notizia data dal Wall Street Journal circa combattimenti fra iraniani e jihadisti è coerente col fatto che i Pasdaran hanno avuto il loro primo pasdar ucciso dai sunniti.
Inoltre l’Iran potrebbe operare sui partiti sciiti nel senso di decidersi a cooperare per la formazione di un nuovo governo. A ciò si aggiunga che proprio Teheran non potrà assolutamente mai consentire che i centri più sacri della storia sciita (Karbala, Najaf, Samarra ecc.), con i loro veneratissimi santuari, siano devastati dalla furia iconoclasta dei jihadisti. E l’esercito iraniano non è confrontabile con quello iracheno di al-Maliki. Sembrar comunque che la resistibile avanzata jihadista abbia perso un po’ del suo vigore, e che l’esercito iracheno abbia ripreso a combattere, come è successo a Bakuba (grazie anche ai miliziani sciiti), Tal Afar, Baiji e Samarra (quest’ultima, pur se sopravanzata dai jihadisti, non è però caduta). Rimandiamo a molto breve scadenza il tema del crollo di questo esercito, e diciamo solo che l’attuale stabilizzazione degli eventi bellici sembra mostrare un’estensione del fronte jihadista al di là delle sue effettive capacità operative.
I Curdi
Più realistico, invece, appare il secondo scenario, consistente nella fine del vecchio Iraq; o forse dell’Iraq tout court. Qui il discorso si fa assai complicato per il numero di soggetti in campo, per le variabili e per la necessità di non omettere la “dietrologia”, che a volte fa prendere sonore cantonate ma a volte ci azzecca. Prima di tutto valutiamo i fatti, cominciando però dai Curdi iracheni.
Caduta Mossul ingloriosamente (una guarnigione di 30.000 soldati battuta da circa 800 miliziani sunniti!), i Peshmerga – le milizie curde del Kurdistan del Sud (il Kurdistan del Nord è in Turchia, quello Occidentale in Siria e quello Orientale in Iran) – si sono affrettate ad occupare Kirkuk: cioè un importantissimo centro petrolifero, da cui Saddam Husayn aveva espulso masse di curdi e in cui aveva avviato un’intensa opera di arabizzazione; i Curdi finora avevano invano rivendicato per sé Kirkuk onde farne la propria capitale (che attualmente è Erbil). Oggi il sogno si è realizzato. Passata la bufera si ritireranno i Peshmerga? Tutto può essere, ma la logica dei rapporti di forza vorrebbe che in atto si rispondesse “no”. E allora davvero il Kurdistan iracheno potrebbe rafforzarsi ancor di più come embrione dell’agognato Stato curdo indipendente. Diciamo “ancor di più” poiché già da Erbil si esporta petrolio senza autorizzazione del governo di Baghdad e, a differenza del resto dell’Iraq, vi funziona tutto (elettricità, acqua, raccolta dei rifiuti, ecc.), mentre si edificano nuovi quartieri e l’edilizia fa affluire enormi quantità di denaro.
Il Kurdistan iracheno, tuttavia, non si limita all’esportazione abusiva di petrolio, avendo avviato il funzionamento di un oleodotto che porti petrolio direttamente al porto turco di Ceyhan, tanto che il governo di al-Maliki aveva smesso di versare al Kurdistan iracheno la parte spettantegli sulle vendite effettuate da Baghdad.
Un osservatore ingenuo potrebbe chiedere: ma la Turchia che fa? Semplice: fa i propri interessi utilizzando due pesi e due misure fra Curdi anatolici e Curdi iracheni. A dire il vero inizialmente – accusando i Curdi iracheni di appoggiare i Curdi del Pkk – aveva anche effettuato azioni di bombardamento, salvo poi accorgersi che le bombe non portavano vantaggi economici; cosicché oggi il Kurdistan iracheno è uno dei maggiori destinatari delle esportazioni turche.
Lo “strano” connubio tra jihadisti e baathisti
L’attuale crisi politico-militare è l’espressione di una rivolta sunnita (probabilmente finanziata dal Qatar e dagli Emirati del Golfo, anche se ora, dopo che i jihadisti si sono impadroniti a Mossul di ben 429 milioni di dollari, ci sarà una certa autonomia finanziaria; ma tutto questo è di dettaglio). La sua rilevanza sta nel fatto che, sia pure sotto le bandiere nere dei jihadisti, sembra aver compattato anche elementi baathisti del vecchio regime di Saddam Husayn (teoricamente “laici”). Si tratta di un fatto nuovo, tanto che alcuni si chiedono se i ribelli siano davvero jihadisti come sembrano. Domanda insidiosa, ma ai nostri fini del tutto inutile.
È utile, invece, accennare a Izzat Ibrahim ad-Duri, che fu vicepresidente di Saddam, prezioso per i suoi legami col mondo religioso sunnita e che mai fu catturato dagli invasori statunitensi. I media arabi non allineati col fronte sunnita (come
Syrian Perspective) ne minimizzano le funzioni militari, sia per l’età e le condizioni di salute, sia per la mancanza di un vero e proprio back-ground bellico. È invece il suo ruolo politico a risaltare, come punto di collegamento fra baathisti, sunniti puri e semplici, e jihadisti. Almeno finché durerà.
Oggi palesemente lo scontro militare non ha come posta la capitale irachena, bensì il controllo di quanti più centri petroliferi sia possibile. Il perché sta anche nel fatto che la parte del paese a grande maggioranza sunnita non ha molto petrolio, dal punto di vista agricolo è assai più povera delle regioni curde e sciite, e quindi avrebbe grandi difficoltà a sussistere economicamente come Stato separato. Questo però non vuol dire che per Baghdad la riconquista totale delle zone perdute sarebbe agevole se permanesse in piedi il fronte sunnita; nemmeno se intervenissero gli Stati Uniti sul terreno.
Quindi abbiamo che i Curdi controllano quel che loro serve per avere un proprio Kurdistan in Iraq; e i jihadisti hanno in mano la parte sunnita. L’Iraq, quindi è attualmente diviso in tre. Ciò conduce a ricorrere di nuovo alla dietrologia, magari senza troppi voli di fantasia e cercando di essere plausibili.
I sospetti sugli Stati Uniti
In passato abbiamo già parlato di un progetto statunitense per dividere in tre parti l’attuale Iraq, corredato da una mappa elaborata dal colonnello Ralph Peters e pubblicata nel 2006, con l’interessante dettaglio dell’inserimento di Kirkuk nella zona curda. In realtà la spartizione dell’Iraq non si riduce solo alla mappa di Peters, giacché nel 2007 il vicepresidente Usa Joe Biden fece passare al Senato un progetto di «decentramento dell’Iraq in tre regioni semi-autonome: curda, sunnita e sciita (…) [con un] limitato governo centrale a Baghdad».
Da questo progetto emergono due elementi importanti ai fini dell’imperialismo: una balcanizzazione dell’area rigorosamente rispondente alla filosofia del divide et impera; la frantumazione dell’attuale corridoio d’influenza sciita che si sviluppa secondo le linee Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut (cioè Hezbollah). Che la cosa interesserebbe anche Israele è fuori discussione. Il corollario di questo progetto implica – come danno collaterale non eliminabile – il sostanziale genocidio delle minoranze cristiane e delle popolazioni sciite fuori dalle aree per queste ultime previste. Ma non trattandosi di cittadini statunitensi o di adepti a una qualche forma di Protestantesimo, tale esito diventa secondario.
A ben guardare si è cominciato con la destabilizzazione della Siria che sembrava l’anello più debole, ma lì non è andata bene, anche perché l’esercito siriano non si è disgregato affatto, c’è stato un forte sostegno logistico russo ed Hezbollah e iraniani sono intervenuti. In più Assad, invece di essere deposto o di andarsene, quest’anno è stato rieletto alla Presidenza. A quel punto era ovvio che qualcosa di significativo dovesse accadere in Iraq. Se qui la manovra riuscisse, il buco nero iracheno provocherebbe l’isolamento della Siria e di Hezbollah rispetto a Baghdad e Teheran, e viceversa. Gli attuali successi dei jiahdisti militarmente sono di una stranezza assoluta, e mandano odore di tradimento e corruzione: ciò in considerazione del fatto – ammesso che sia vero – che il numero dei jihadisti si aggirerebbe sui 30.000 uomini. L’esercito di Saddam li avrebbe eliminati con brutale rapidità; ma così non è stato per l’esercito creato dagli statunitensi.
La posizione assunta da Obama è completamente diversa da quella di Bush e da quella interventista ripresa oggi con virulenza dai repubblicani, ma non è detto che divergano anche gli obiettivi. Se il governo di Baghdad non ce la dovesse fare a sconfiggere i jihadisti, la spartizione sul terreno apparirebbe già bella e fatta, e basterebbe solo un “interventino” di Washington per stabilizzarla. Lo stesso, e a maggior ragione, dicasi per la posizione interventista repubblicana, giacché l’impegno militare diretto statunitense vorrebbe dire nuova invasione del paese.
È rivelatore il fatto che sia democratici sia repubblicani se la prendano accanitamente con al-Maliki e gli sciiti; o che in taluni giornali si cominci a sostenere che l’egemonia sciita sull’Iraq sia arrivata alla fine. Dal momento che negli Stati Uniti non si vuole che i jihadisti sunniti controllino tutto l’Iraq, ma nel contempo non si vuole aiutare gli sciiti iracheni, ecco che la spartizione risulta per forza di cose l’esito “naturale”. Diventano quindi sintomatiche le pressioni Usa per far dimettere al-Maliki per quanto egli abbia vinto le recenti elezioni. Se davvero l’offensiva jihadista avesse preso alla sprovvista il governo Usa, allora esso dovrebbe procedere a massicci licenziamenti e sostituzioni nei suoi servizi di intelligence. Che nessuno si fosse accorto di quanto si preparava non è affatto credibile: eppure Washington è rimasta ferma e non ha dato segnali di allarme. E ciò benché, oltre ad aver avuto qualche migliaio di morti, abbia speso nella seconda guerra in Iraq oltre 800 miliardi di dollari solo per le operazioni militari, per arrivare a 3.000 miliardi considerando la totalità dei costi.
Ma indebolimento e controllo dell’Iraq diventano “necessari” anche alla luce della sempre maggiore presenza economica della Cina, oggi acquirente di metà circa della locale produzione petrolifera e titolare di grandi investimenti nell’industria estrattiva irachena. A ciò si aggiunga che nel febbraio scorso, durante la visita del ministro degli esteri Wang Yi a Baghdad, sono stati firmati accordi anche per forniture militari cinesi. Aggravando la sua posizione verso Washington, a novembre dell’anno passato Nuri al-Maliki ha concluso con Teheran, sfidando l’embargo voluto da Washington, un accordo per l’acquisto di armi iraniane che ammonta a 195 milioni di dollari.
Qualcuno pensa alle conseguenze?
Non c’è bisogno di essere profeti per concludere che gli Stati Uniti ancora una volta sono responsabili della nascita di una specie di mostro di Frankenstein e del suo sguinzagliamento per il mondo. L’organizzazione dei jihadisti che sta mettendo in ginocchio l’Iraq è nata in Siria, nel calderone della rivolta contro al-Assad, e ormai non è un segreto per nessuno il foraggiamento statunitense a tutti gli insorti, estremisti islamici compresi. Anche le parole lo rivelano: finché operavano in Siria gli Stati Uniti li qualificavano come “ribelli”; gli stessi, ora in Iraq sono diventati “terroristi”. Ma tant’è.
Se l’ipotesi dietrologica dianzi proposta non venisse smentita, allora la manovra statunitense dovrebbe essere considerata ad altissima e incosciente rischiosità. Difatti gli eventi iracheni sono diventati un incubo per tutto il mondo islamico non stordito dalla droga jihadista. Sono in pericolo di contagio Iran, Libano, Giordania, Turchia e anche l’ineffabile Arabia Saudita (il cui Re non a caso è andato al Cairo da al-Sisi).
Un infuriato al-Maliki ha sùbito accusato l’Arabia Saudita di appoggio ai jihadisti in Iraq; tuttavia si possono nutrire dubbi sulla sussistenza attuale di un aiuto ufficiale saudita. Sul ruolo del Qatar è meglio non pronunciarsi. Sta di fatto che in tutta la penisola araba esistono ultraricchissimi “mecenati politici” non governativi e difficilmente controllabili dai poteri locali. Ciò detto, va osservato che il governo saudita – al di là delle affinità ideologiche – non sembra proprio favorevole ai jihadisti iracheni, così come non lo è stato per i Fratelli Musulmani d’Egitto. E poiché la motivazione per un simile atteggiamento non può che rimandare a divergenti interessi concreti, è legittimo chiedersi se non si debba fare riferimento alla presenza di elementi del defunto partito Baath di Saddam. La caduta di Mossul va attribuita a ex-ufficiali baathisti che abbandonarono i loro posti causando il collasso delle difese della città e fu il Baath a propugnare l’invasione del Kuwait che era diventato troppo “ossessivo” nel chiedere il rimborso delle somme anticipate all’esercito iracheno nella guerra contro l’Iran di Khomeini.
La vittoria degli ex-baathisti sarebbe una calamità per l’Arabia Saudita. Esistono testimonianze da Mosul sul fatto che all’ingresso della città vi sono ora i ritratti di Sadam Husayn e Izzat Ibrahim ad-Duri e che sarebbe stato nominato un nuovo governatore, in persona dell’ex-generale di Saddam, Azhar al-Ubaydi.
Ma sauditi a parte va considerato che con la frammentazione dell’Iraq si sta completando un corridoio jihadista che comprende Egitto e Yemen, penetra in Libia, arriva in Tunisia, si estende nel Sahara per arrivare al Mali e colpisce anche Kenya e Nigeria. Ovviamente le armi abbandonate dai militari iracheni e prese dai jihadisti saranno usate pure in Siria col rischio di vanificare almeno parte dei risultati ottenuti dall’esercito regolare siriano contro gli insorti.
Anche la Turchia corre il rischio di pagare caro l’avventato appoggio logistico dato ai ribelli islamisti in Siria. Intanto sembra che tra i jihadisti dell’Iraq vi siano circa 3.000 turchi, che prima o poi dovranno pur tornare a casa a far danni o a creare problemi. L’incubo per Ankara consiste nel pericolo di una saldatura (alla maniera irachena) fra i curdi (laici finora) del Pkk e i jihadisti iracheni: se si realizzasse sarebbero dolori per la Turchia ma anche per il confinante Iran che alla frontiera ha una zona curda. Intanto in Libano ci sono stati attentati, scontri al confine con gruppi estremisti, mentre incombe il pericolo delle cellule dormienti all’interno, che potrebero risvegliarsi da un momento all’altro.
Un attacco alla Giordania, poi, non sarebbe affatto difficile. Infatti Amman ha già schierato truppe aggiuntive ai confini con Siria e Iraq, stante la presenza sul suo territorio di una cellula jihadista favorevole all’instaurazione di un emirato islamico. E dalla Giordania lo sconfinamento in Palestina e da lì in Egitto, attraverso il Sinai, sarebbe un gioco. Dal canto suo l’Egitto è ormai una polveriera: migliaia di Fratelli Musulmani sono stati uccisi, attentati, sequestri, e scontri a fuoco tra islamisti e la polizia fanno ormai parte di una “normalità” patologica, e l’economia è a picco. Per non dire che dal Cairo a Tripoli è un passo.
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