November 29, 2024
L’accordo Usa-Afghanistan voluto da Washington, ostacolato per quasi un anno dal rifiuto del presidente Karzai di sottoscriverlo, è stato firmato im pompa magna a Kabul il 30 settembre, il giorno dopo l’insediamento del nuovo presidente Ashraf Ghani. L’«Accordo di cooperazione sulla sicurezza e la difesa» – comprendente, oltre a una premessa e a un annesso, 26 articoli suddivisi in 116 punti – contiene tutto ciò che Washington voleva ottenere.
In base all’accordo, che resterà in vigore dal 2015 al 2024 e oltre, gli Stati uniti potranno mantenere in Afghanistan, dopo la fine formale della «missione di combattimento» il 31 dicembre 2014, circa 10mila militari con il compito ufficiale di consigliare (leggi comandare), addestrare, equipaggiare e sostenere le «forze di sicurezza» nazionali. Gran parte del contingente Usa sarà composta da forze per le operazioni speciali, che effettueranno «missioni di controterrorismo» in territorio afghano. Anche se non si specifica, saranno a tal fine usati droni armati, elicotteri e cacciabombardieri che partiranno da basi terrestri e portaerei dislocate in zone limitrofe.
Le forze speciali Usa vengono di fatto autorizzate a fare irruzione nelle case afghane (punto contestato da Karzai), anche se formalmente l’accordo impegna gli Usa ad avere «pieno rispetto per la salvezza e sicurezza degli afghani anche nelle loro case». I militari Usa restano di fatto sottratti alle leggi afghane, poiché all’articolo 13 l’Afghanistan acconsente che «gli Stati uniti abbiano l’esclusivo diritto di esercitare la giurisdizione» sui propri militari che «commettano qualsiasi reato criminale o civile» in Afghanistan.
L’accordo stabilisce (all’articolo 7) che «l’Afghanistan autorizza gli Stati uniti a usare installazioni ed aree scelte di comune accordo e ad esercitare tutti i diritti necessari al loro uso operativo e al loro controllo, compreso il diritto di intraprendere nuovi lavori di costruzione». In altre parole, l’accordo autorizza gli Stati uniti a mantenere e potenziare basi militari in Afghanistan. Anche se nell’articolo 7 non si specifica quali siano, nell’annesso si elencano, quali «punti ufficiali di imbarco e di sbarco» delle forze statunitensi, 7 basi aeree (Bagram, Kabul, Kandahar, Shendand, Herat, Mazar-e-Sharif, Shorab) e 5 terrestri (Toorkham, Spinboldak, Toorghundi, Hairatan, Sherkhan Bandar).
Inoltre l’Afghanistan autorizza gli Stati uniti a «posizionare equipaggiamenti, rifornimenti e materiali militari in tali installazoni ed aree e in altre scelte di comune accordo». In altre parole, autorizza gli Usa a preposizionare nelle basi afghane gli armamenti ed equipaggaimenti necessari per una guerra regionale su larga scala, come potrebbe essere quella contro l’Iran.
In cambio, il governo afghano riceverà dagli Usa e altri «donatori» (tra cui l’Italia) un consistente aiuto economico, quantificato in 4 miliardi di dollari annui, che come il precedente finirà in gran parte nelle tasche della casta dominante, arricchitasi con i miliardi della Nato, gli affari sottobanco e il traffico di droga.
Subito dopo quello Usa-Afghanistan, è stato firmato «L’Accordo tra Nato e Afghanistan sullo status delle forze», analogo al primo. Esso permette di mantenere in Afghanistan, oltre a quelli statunitensi, 4-5mila militari, per la maggior parte britannici, tedeschi, italiani e turchi.
Quindi l’Italia, continuando a spendere milioni di euro sottratti ai nostri cittadini, resterà in Afghanistan, dove la nostra aeronautica continuerà a operare con aerei da trasporto C-130 J e da guerra elettronica EC-27 della 46a Brigata aerea di Pisa e velivoli a pilotaggio remoto Predator del 32° stormo di Amendola; dove continueranno a operare ancor più di prima le forze speciali, oggi potenziate dalla nascita del comando unificato a Pisa.
La guerra continuerà così in forma coperta, provocando altre vittime e tragedie sociali in Afghanistan che – situato al crocevia tra Asia centrale e meridionale, occidentale e orientale – costituisce un’area ancora più importante oggi che la strategia Usa/Nato sta portando a un nuovo confronto con la Russia e, sullo sfondo, con la Cina.
(tratto da Il manifesto, 4 ottobre 2014)
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